Quello della violenza poliziesca in Francia è un problema antico. È da molti anni che diversi organismi che si occupano di diritti umani denunciano la violenza sistematica della polizia nelle periferie, dove all’abuso di potere si aggiunge il movente razzista. Secondo alcuni rilevamenti, la metà degli agenti simpatizza per partiti neofascisti. Negli ultimi due anni, il movimento dei Gilet Jaunes è stato represso con uso di armi da guerra, come i proiettili di gomma e le granate. Il bilancio di questa guerra, perpetrata contro la popolazione e diretta contro l’opposizione politica al governo, lascia senza fiato. Decine di persone hanno perso un occhio. Altri hanno il viso distrutto. Altri ancora hanno perso una mano. Alcuni sono morti. Tra questi, dei manifestanti, dei semplici cittadini, dei passanti, persino alcuni bambini ed anziani. Tutte queste violenze sono state documentate e diffuse su internet. Ma nulla è cambiato. Tutte le denunce vengono trattate dall’Igpn, una polizia interna alla polizia che nega sistematicamente i fatti. Quei pochi casi che arrivano nelle aule di tribunale sono respinti dalla stessa giustizia che commina pene severissime alle vittime di quella violenza. La polizia gode nei fatti dell’impunità. E, come nelle peggiori distopie, se ne serve e ne abusa. Ma anche questo non basta.

Attraverso i suoi sindacati – quasi tutti apertamente neofascisti – la polizia fa sapere al governo che nessuna critica verrà tollerata. E il governo, che senza la polizia sarebbe perduto, si mette sull’attenti. «Non si può utilizzare l’espressione ’violenze poliziesche’ – ha affermato Macron – perché la polizia francese è repubblicana». Questo sofismo è stato da poi ripreso come un mantra da tutta la maggioranza per zittire ogni tentativo di critica. Ma anche questo non basta.

Le immagini circolano e parlano da sé. Allora che fare? La risposta del governo si chiama legge di «sicurezza globale». La legge, che sarà votata in questi giorni, prevede da una parte la sorveglianza senza limiti estesa a tutta la popolazione e d’altra parte l’impossibilità di diffondere immagini della polizia. Non è la Turchia di Erdogan. Non è la Russia di Putin. È la Francia di Macron. Qualche voce si è levata. Poche, rispetto alla posta in gioco. Alcune attese, come quella di Amnesty International. Altre meno, come quella della Srf, alla lettera: Società dei realizzatori di film. Per capire perché hanno deciso di intervenire, con una bella lettera aperta pubblicata l’11 novembre scorso sul quotidiano «Libération», dal titolo «Police partout, images nulle part» (Polizia ovunque, immagini da nessuna parte); ne abbiamo parlato con uno degli 800 firmatari, il regista Guillaume Brac.

Come è nata l’idea della lettera aperta?
Da qualche tempo a questa parte, la Srf si è politicizzata e il suo orientamento è diventato più chiaramente di sinistra. Penso che solo due o tre anni fa questo tipo di intervento sarebbe stato meno evidente. D’altra parte, il movimento dei Gilet Jaunes ha creato una coscienza nuova. Ovviamente non tutti sono d’accordo su tutte le iniziative. Recentemente è stata organizzata una proiezione selvaggia di Zero in condotta di Jean Vigo sulla facciata del teatro La Cigale. Ad alcuni, l’idea è sembrata inappropriata e controproducente.

E su «Police partout, images nulle part»?
Su quella, c’è stato un consenso pressoché unanime.

Alcuni si sono stupiti del vostro intervento. Perché i registi dovrebbero occuparsi di ordine pubblico?
C’è in effetti chi ha reagito così. Un sindacato di polizia – Synergie-Officiers – ha twittato: «Che legittimità hanno? I poliziotti forse hanno la possibilità di esprimersi sulla pertinenza dei finanziamenti pubblici che vengono attribuiti a dei filmacci sovvenzionati?». In una sola frase si affermano tre inesattezze. La prima è che il cinema è finanziato con il denaro pubblico. In realtà la maggioranza dei finanziamenti vengono dalla redistribuzione degli incassi. Poi c’è l’idea secondo la quale, sull’uso della forza pubblica, solo chi fa parte della polizia è legittimato a decidere; mentre ovviamente, in una Repubblica, riguarda tutti i cittadini. La Srf si esprime come un’associazione civica. Che naturalmente ha voce in capitolo sullo stato di diritto in Francia. Ma c’è un terzo punto: il problema dello statuto delle immagini ci riguarda anche in quanto cineasti. È una questione molto concreta. Molti dei film più interessanti di questi ultimi anni non sarebbero stati possibili con questa legge detta di «sicurezza globale». Uno per tutti, il film di Matthieu Bareyre L’Epoque.

C’è stata una reazione da parte del governo alla lettera?
No. Lo spettacolo, l’editoria, il cinema vengono sempre per ultimi nei pensieri di chi ci governa attualmente. Ma è importante che la Srf si sia espressa. Sono contento del testo e della sua circolazione nell’opinione pubblica.