L’ultimo libro «illustre» arrivato nella biblioteca di Guido Rossi, un po’ prima dell’estate, è stato il Varon Milanes, un volumetto – da pochi soldi, su carta andante – stampato a Milano nel 1606 che costituisce il più antico vocabolario milanese-italiano, arricchito da ricerche etimologiche sulle origini greche e latine delle parole; non è inverosimile, stante l’anagrafe (era del 1931), che a casa di Guido, quando lui era piccolo, la sua mamma parlasse in dialetto. Gli è capitato di scrivere: «Non è forse vero che la radice delle parole mette spesso in luce la corretta spiegazione e il significato autentico delle vicende umane, più di quanto non faccia la descrizione puntuale degli avvenimenti?».
A luglio, nell’imminenza dei pochi giorni di tregua in cui l’eroica Francesca è partita per una brevissima vacanza, Guido – il cui corpo alla fine assomigliava a quello del Cristo di Grünewald a Colmar – le ha consigliato la lettura dei Promessi Sposi. Naturalmente: senza ostentazioni né ricercatezze. Come il libro a cui chiunque ha aperto gli occhi sotto questo cielo si rivolge in tutti gli accidenti della vita, sicuro di trovarci una risposta o una condivisione almeno delle proprie inquietudini. Che siano le sventure di Gertrude, le prepotenze di Don Rodrigo, la viltà di Don Abbondio, l’umanità di Fra Cristoforo, ma anche il diritto violato della Colonna infame. Mi è sempre parso, ma non gliel’ho mai detto, che i pensieri notturni di Romolo sulle rive del Tevere, mentre «i battiti del suo cuore diventano sempre più frequenti e un indistinto ronzio gli risonava nelle orecchie», al principio del suo Ratto delle Sabine, dovessero qualcosa a quanto aveva provato Renzo in fuga da Milano, quella notte, davanti allo sciabordare dell’Adda; solo dopo insomma era arrivato Il ramo d’oro. Inutile invece evocare Gadda alla fine, al cui capezzale gli amici si susseguivano per dargli requie leggendogli, a turno, i capitoli del più grande romanzo italiano. Guido, che pur amava l’autore della Cognizione e del Pasticciaccio, non ha mai perseguito, nella sua attività di scrittore, l’espressionismo espressivo.
Esiste – neanche troppo sotterranea – una lunga fedeltà di Guido Rossi a una linea civile e laica che viene giù dall’Illuminismo lombardo e che si pone come traguardo, sempre differito, l’eliminazione delle disuguaglianze tra gli uomini (era quanto desiderava anche chi ha immaginato la Fondazione che oggi ci ospita). Lungo il corso dei secoli, nella testa di Guido (ma anche nel suo cuore), quella linea si è arricchita di mille altre esperienze, attinte da ogni angolo della rosa dei venti, ma con una bussola interiore per la qualità intellettuale, che lo ha tenuto lontano da topiche e abbagli: e quindi – alla rinfusa, avanti e indietro, e pronunciati da un non competente – Thomas Mann e Altiero Spinelli, Adriano Olivetti e Giordano Bruno, Catullo e Auden, Luigi Einaudi e l’amatissimo John Maynard Keynes. Con incursioni, sorprendenti e inaspettate, che ti lasciavano a bocca aperta per le ardite contaminazioni: per esempio il cattolico Maritain evocato in mezzo alle tempeste dei capitalismi finanziari, colpevoli di avere tradito l’eredità dell’Europa «laica e illuminista». Ma tutti questi nomi non erano per il nostro amico solo gli autori di libri più o meno prediletti: erano, nei limiti del possibile, esseri umani, con cui venire in contatto per la totalità della loro vita, persone conosciute o, se impossibile, di cui entrare in possesso di frammenti tangibili. E allora diari, lettere, autografi, fotografie, ex libris… perseguiti non come trofei, non come acquisizioni di status ma come conforto e conferma. Di cosa? Della sicurezza, magari testarda, delle proprie scelte.
Con la medesima naturalezza con cui sentiva di appartenere – non per schiatta ma per scelta – alla civiltà dei Verri e di Beccaria, Guido, quando si trattava di affrontare le predilette questioni figurative, si rifaceva alla tradizione di Roberto Longhi, il maggiore storico dell’arte del XX secolo: per lui «il Maestro per chiunque abbia amato e ami l’arte, ciascuno naturalmente coi modi suoi». La cartografia degli interessi di Guido non si sovrappone infatti a quella di Longhi, nonostante le numerose tangenze: per un esempio soltanto, gli enigmi di De Chirico, cari a Guido e la cui soluzione restava ostica a Longhi. Quante avanguardie storiche, surrealismo compreso, ricercate anche leggendo e studiando gli scritti dei protagonisti e dei comprimari e persino delle comparse o addirittura tramite il contatto diretto con gli autori superstiti, auspice – nella Milano degli anni Sessanta – Arturo Schwarz. Che piacere provava nel ricordare gli incontri, non come medaglie al merito o raccolta di «ultime parole famose»: e qui Man Ray poteva stare vicino ai narcisismi di Giorgio Strehler, Montale alle intemerate di Carmelo Bene. Ma, scendendo più vicini a noi, doppiati Fontana e Manzoni, eccolo apprezzare Beuys e Kiefer e persino il mio coscritto Cattelan, non trincerandosi mai dietro l’ideologia della pittura. Con un senso naturale per la qualità, senza bisogno di consiglieri e di esperti, interpellati solo là dove necessario. E poi, sempre seguendo il filo degli uomini, e con un occhio alle provenienze, ai passaggi di proprietà delle cose, avendo naturalmente assorbito il mutamento copernicano toccato alla storia dell’arte grazie a Francis Haskell.
Guido era particolarmente fiero che in casa sua fossero giunti oggetti già posseduti da John Pope-Hennessy a Firenze, a New York, a Londra. Gli piaceva giocare – sul filo delle etimologie – su quel «Pope», «the Pope»… Quasi un sigillo di particolare autorevolezza. Gli era piaciuto Learning to Look, l’autobiografia del grande storico dell’arte inglese: era l’amore per i contrasti, il gusto di inseguire le contraddizioni. L’estetismo fuori tempo massimo di Pope-Hennessy, la ritualità ancora di tradizione berensoniana che governava la sua esistenza, le violenze ricoperte dalle buone maniere, vizi privati e pubbliche virtù, capricci, segreti inconfessabili e inconfessati: tutto apparentemente molto lontano dal sistema di valori a cui Guido aveva improntato la sua esistenza. In comune però una fanatica dedizione al lavoro, una produttività incessante e la capacità di decisioni improvvise e sconvolgenti.
Certo c’erano zone privilegiate della storia, delle cui reliquie Guido andava alla ricerca: zone naturalmente alte e fondative. Qualcosa ho già detto della stagione europea delle avanguardie storiche, ma altrettanto rilevante – se non di più – per lui è stata la cultura, letteraria e visiva, dell’Umanesimo veneziano, con al centro la parabola di Aldo Manuzio. Il festina lente, l’affrettati lentamente insieme all’àncora con il delfino, il marchio cioè dell’impresa editoriale di Aldo, recuperato da una moneta di Vespasiano, di cui Guido possiede un esemplare (forse l’unico pezzo numismatico della sua raccolta), era addirittura scaraventato – con un gesto creativamente estremo e alla faccia delle cronologie – nel pieno della contesa tra Romolo e Remo nel cuore del suo Ratto delle Sabine, a mezza via tra il sogno e la confessione in figura. Un po’ come il cocomero che rotola spaccato tra le pietre medioevali della piazza dei Miracoli di Pisa, diventata per prodigio Corinto, in uno dei passaggi più intensi della Medea di Pier Paolo Pasolini. E se dovessi immaginare un film – e che film – tratto dal libro di Guido sulle origini di Roma mi verrebbe da figurarmelo a mezza via tra l’antropologia poetica dell’Edipo re e della Medea, girati dallo scrittore di Casarsa, e gli orrori epici di Apocalypse Now. Sarà un caso dettato dagli affetti famigliari ma una delle ultime sortite dalla casa di piazza Castello era stata, l’altr’anno, per recarsi al Piccolo Teatro a vedere Livia in un saggio di materiali pasoliniani relativi proprio all’antichità classica. Quando già le cose si erano messe male, per quanto non così male, Guido aveva trovato la forza di entrare, per la porta di Santo Spirito, dentro il maniero sforzesco a rivedere la Pietà Rondanini nella nuova sistemazione, tanto fortemente voluta da Stefano Boeri. Anche lì non era solo l’amicizia: e non si trattava solo di ammirazione per l’opera d’arte, ma della volontà di andare al fondo, scavando in sé stesso, della creazione michelangiolesca.
Detto così, tutto rischierebbe di risultare maledettamente serio, retorico se non tragico: ma anche in questi mesi estremi, in mezzo a formidabili arrabbiature e lamenti, si riusciva persino a ridere con cortocircuiti continui tra il passato e il presente, giudizi affilati e impietosi e imprevedibili. In quelle giornate senza mattine, le opere d’arte venivano mosse sulle pareti di casa, a tratti prese da un moto perpetuo, fattosi più intenso mano a mano che risultava ridotta la mobilità del proprietario: spesso servi di scena due miei allievi, Agostino e Tommaso. Come se gli occhi di Guido volessero avvicinare o allontanare questo o quel quadro, afferrare un frammento di panneggio o il brillare di uno specifico oro: uno spettatore in poltrona in una messinscena, e delle più complesse, di Luca Ronconi? O il «Mehr Licht» di Goethe alla fine? E sarà un caso ma il contenitore delle ceneri di Guido, oggi tra i libri della sua biblioteca, è un cubo come quello dell’Altare della Buona Fortuna in mezzo agli alberi del giardino della casa di Weimar: quella scultura astratta, l’unica da lui realizzata, il grande scrittore l’aveva creata nel 1777 per esprimere gratitudine a Charlotte von Stein, il cui equilibrio aveva dato una base alla sua irrequieta esistenza. A tante delle donne che gli sono state vicine – la moglie, le figlie, la Silvana, la Maria, la Ana, e le amiche più care (da Eva a Rosellina) – forse anche Guido avrebbe potuto dire: «Versasti moderazione nel caldo sangue, desti una direzione alla mia selvaggia, erratica corsa».