Il ritorno in concerto di Kate Bush è forse l’evento musicale dell’anno. Il sold out dei suoi gig con i biglietti venduti in pochi minuti dà conto di quanto sia mancata al pubblico la poliedrica cantante di Welling. In coincidenza con i concerti, la Snapgalleries di Londra ospita dal 26 settembre al 4 ottobre prossimi gli scatti fotografici di Gerard Mankovitz, che la ritrasse agli inizi della carriera lanciandone l’immagine e di Guido Harari che lavorò con lei durante la gestione di album e singoli come Running up the hill, Moments of Pleasure, The Sensual World e The Red Shoes. Con la sua casa editrice e galleria, la Wall of Sound, Harari in concomitanza con la mostra, si appresta a pubblicare anche un libro. Da qui parte la conversazione.

Quando hai conosciuto Kate Bush?

Ho ascoltato prima i suoi dischi, poi l’ho incontrata grazie alla mia professione e ad un servizio commissionato da Rockstar. Ma fin dai suoi primi album, l’ascolto della sua musica e delle sue canzoni mi colpirono a tal punto che alcune divennero tra le mie preferite. Non posso far a meno di andare a riascoltare Wutherings Heights o l’amata Moments of Pleasure per la cui uscita lavorai ai materiali promozionali. Il libro è il racconto di come io ho visto Kate Bush.

Hai frequentato ininterrottamente la cantante dal 1985 al 1993, tre album, una quantità di singoli e un film; insomma undici anni intensi in cui racconti come si è evoluto il vostro rapporto di lavoro in amicizia, per questo ti sorprese il suo silenzio durato più di dieci anni e il ritirarsi dalle scene per così lungo tempo?

Mi sono fatto un’opinione. Dopo il suo volontario ritiro, ci siamo sentiti al telefono ancora qualche volta. Aveva desiderio di pensarsi più come persona che come artista. Desiderava diventare madre, più tardi ebbe un figlio, da poco aveva pure un nuovo compagno. Non faceva mistero di voler cambiare la sua vita. La registrazione di The Red Shoes l’aveva stancata e l’accoglienza di The Line, The Cross and The Curve, film a cui aveva riservato non poche energie, dirigendolo e interpretandolo, aveva avuto un’accoglienza non particolarmente calorosa. Si sentiva stanca e voleva come dicevo ripensare la sua vita. Poi, dico non si andava più lontano di biglietti e lettere di auguri. Le comunicazioni non erano rapide come oggi e ci siamo persi di vista. Chissà che la mostra, le foto e i ci faranno di nuovo incontrare, per intanto andrò ad ascoltarla in uno dei suoi concerti.

Dunque, un passo indietro. L’hai incontrata per un servizio su Rockstar, tra l’altro a Riva del Garda…

Sì, era lì per la promozione di The Dreaming. Dicevo dei suoi album che ascoltavo già e la consideravo insieme a Peter Gabriel la punta più avanzata della musica di quegli anni. Fui molto felice della loro collaborazione. Nello stesso periodo avevo appena pubblicato un libro su Lindsay Kemp che era stato maestro di Bowie e anche suo. Lo portai con me e quando la incontrai ebbi la sorpresa di vedere con lei due ballerini, uno dei quali era Douglas McNicol della compagnia di Kemp. Furono grandi feste e con il libro di mezzo si stava aprendo un portone per entrare nell’arte della Bush alla quale non avevo minimamente pensato. Le foto che scattai gliele mostrai a Milano, ne rimase entusiasta.

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…E circa tre anni dopo la Bush ti chiamò per Hounds of love. Di cosa ti occupavi?

Mi occupavo soprattutto di scattare foto per la promozione del disco. Delle copertine degli album si occupava prevalentemente John Carter Bush, il fratello.

Arrivavi con idee organizzate o lasciavi tutto in mano all’artista?

A differenza di ciò che si può pensare sbirciando le foto o i clip o solo andando ad riascoltare le sue canzoni, la Bush viveva con molta naturalezza le sedute fotografiche. Guardava il lavoro quand’era concluso, non si scattava ancora in digitale e le uniche prove le si vedevano solo attraverso poche polaroid. Avevo la Nykon 35mm e la Hasselblad medio formato. Era come se si fidasse del risultato finale. Una volta, in studio, abbiamo sempre lavorato in studio, non le interessavano location differenti, portai delle foto di quadri di Frida Kahlo. Per una singolare coincidenza Miranda Richardson, che aveva una parte nel suo film, era stata truccata come la pittrice messicana.

Comunque pare di capire una certa distanza tra la sua persona e il raffinato concettualismo della musica…

Proprio così. Avevo anch’io grandi aspettative ed invece mi trovato di fronte ad un’artista grande che adoperava il suo fascino con estrema naturalezza. Altrettanto naturalmente s’affacciavano le sue tante maschere. Tendeva a scalare di marcia, a semplificare la sua ricerca che, tuttavia, restava. Avevo la sensazione che elaborasse il suo immaginario non come personaggio ma come persona che affronta la propria normalità e quotidianità.