“Creste insignificanti di colline come di brughiera che corrono via, forse verso un gruppo di picchi drammatici a sud-ovest. Questo dà un senso dello spazio che è così carente in Italia.” – scriveva D. H. Lawrence in Mare e Sardegna (1921) – “Incantevole spazio intorno a un individuo, e distanze da viaggiare – niente di finito, nulla di definitivo.” Un’isola, la Sardegna, che continua ad affascinare i viaggiatori di ogni tempo, come ci raccontano le fotografie che Guido Guidi (Cesena 1941) ha realizzato in due momenti della sua vita personale e professionale. Circa 250 scatti esposti per la prima volta in occasione della mostra Guido Guidi. In Sardegna: 1974, 2011, curata da Irina Zucca Alessandrelli, al MAN – Museo d’Arte Provincia di Nuoro che l’ha prodotta con l’ISRE – Istituto Superiore Regionale Etnografico della Sardegna (fino al 20 ottobre). Nei tre piani dell’edificio, nel centro di Nuoro, si parte al piano terra con le fotografie a colori più recenti per spostarsi più su con quelle in bianco e nero datate 1974. Un viaggio tra le ombre che diventano linee grafiche sui muri, lungo le strade; tra i riflessi del mare e i paesaggi lunari, i sugheri, le insegne dipinte, i campanili, i manifesti elettorali, una giostra smontata, gli asinelli, i murales… da Oristano a Orani, da Bosa a Ussana, da Tempio Pausania a Olbia. Un modo di guardare il paesaggio, quello di Guidi, in cui non c’è un ordine preciso. E’ fatto d’incontri, casualità, evocazioni come la rete dei pescatori, nella cui forma la curatrice immagina un ghepardo: fa da pendant alla rana morta a pancia all’aria che le ricorda quella dipinta dal Bramantino nella Madonna in trono con sant’Ambrogio e san Michele a simboleggiare il maligno sconfitto. “C’è molto della storia dell’arte del Rinascimento nello sguardo di Guido”, afferma Zucca Alessandrelli che parla anche della sua “carica rivoluzionaria di autonomia nel lasciare spazio all’osservatore”. L’idea di questa mostra risale a una chiacchierata tra i due, aprendo vecchie scatole gialle della Kodak nella casa di Guidi a Ronta di Cesena. Fotografie che sono state ristampate per l’occasione sotto la supervisione dell’autore e pubblicate nel catalogo-cofanetto edito da MACK. Nel ’74 Guidi usava una Nikon con obiettivo 55 e grandangolo da 20 millimetri, mentre nel 2011 (insieme a lui c’era anche il fotografo statunitense John Gossage amico di lunga data) il banco ottico (Deardorff 8×10) era affiancato da macchine digitali più maneggevoli. Nel suo lavoro anche i dettagli non descrittivi raccontano molto delle storie. “Io continuo a usare un metodo scientifico per rappresentare anche ciò che non riesco a vedere. Il visibile, diceva Democrito, è uno spiraglio per l’invisibile.”, afferma Guidi.

Nella tua ricerca qual è il rapporto tra il disegno e la fotografia?

Il disegno, per me, è stato un momento importante fin da bambino, forse anche perché venivo dalla campagna come Giotto. (ride) Sai la leggenda su Giotto scoperto da Cimabue? A parte gli scherzi, fin dal primo liceo, in anticipo sul corso di studi, mi sono interessato alla prospettiva scientifica che è una prospettiva artificiale. In seguito, per guadagnare due lire ho fatto disegni di prospettiva per un ingegnere. Andavo da lui un pomeriggio alla settimana, a Ravenna, negli anni del liceo. Dopo ho disegnato anche per me. La prospettiva è soprattutto disegno, prima di essere pittura e la prospettiva disegnata è uno strumento molto adottato dagli architetti. E’ nata da Brunelleschi che era architetto e anche da Leon Battista Alberti che pure era architetto. Il disegnare è parente di un’altra parola che è designare che, a sua volta, lo è di indicare. Tra il disegno e la fotografia c’è in comune l’indice, l’indicare quella cosa là che sta tra me e te, tra me e lo strumento.

Ti definisci “ragazzo di campagna”, come si traduce quest’esperienza nel tuo lavoro?

Quando vado a Chicago mi ritrovo a fotografare le cose che ho visto quando ero bambino. Non sono le stesse, ma in qualche modo hanno un’aria simile. Quelle cose lì le vedo, altre no. Non è che non le voglia vedere, semplicemente non le vedo. Anche se la fotografia mi aiuta a vedere ciò che non ho ancora visto, dietro c’è questa spinta: la necessità di riconoscere quello che ho già visto.

In particolare, durante i due viaggi cosa hai ritrovato nei paesaggi sardi rispetto alla tua storia?

Nel primo viaggio ho trovato una Sardegna vicina agli anni del dopoguerra, quelli della mia infanzia. Andavo a scuola in città, a Ravenna e le case erano ancora piene di schegge, dei traumi subiti dalla guerra da poco passata. Mi ricordo che, quando ho iniziato a fotografare, ho rimpianto quelle case che erano già state reintonacate. Perché proprio le ferite delle case? Quando c’era il dibattito tra i pittori e i teologi sul perché dipingere Cristo – l’essere perfetto – con le stimmate, Tommaso d’Aquino diceva che le stimmate erano un onore, una bellezza sublime. Le stimmate sono la memoria della vita e questa è anche la mia storia. La storia della guerra che ho vissuto da bambino. Mi ricordo poco, ma quel poco che ricordo mi ha attraversato e che racconto involontariamente. Mi hanno accusato parecchie volte di fotografare quelli che a Venezia chiamano i “rovinassi”, i muri che crollano. Ma i “rovinassi” sono le stimmate del tempo. In Sardegna, nel ‘74, ho ritrovato quello che apparteneva alla mia memoria e che andava dissolvendosi nel presente del luogo in cui abitavo, tra il Veneto e il paese in cui sono nato.

Nel maggio ‘74 ti imbarchi da Civitavecchia per Olbia: un viaggio di nozze in tre. Anzi, oltre te, tua moglie Marta e il tuo amico Maurizio Preda, la quarta protagonista è la 127…

Una macchina che non mi piaceva, ma costava poco! (ride) In macchina dormivamo io e Marta – tiravamo giù i sedili – mentre Maurizio dormiva nella tenda poco lontano. (ride) Qualche volta abbiamo dormito anche in albergo, ma solo quando pioveva. Un viaggio che durò il tempo della licenza matrimoniale, perché all’epoca lavoravo all’università come tecnico. Era nel mese di maggio, un bel periodo in cui si stava bene. Non c’era il caldo eccessivo. Avevamo una mappa che persi, ma c’era Maurizio che era il capitano di lungo corso, l’entusiasta di turno. Andiamo a vedere Stintino, andiamo a veder di qua e di là… Per me andava bene tutto, purché attraversassi dei posti. Abbiamo attraversato velocemente tutta la Sardegna, dormendo male e mangiando male quello che capitava. Ci accampavamo dove arrivavamo per la stanchezza. Dormivamo sempre fuori dai campeggi, all’epoca si poteva fare. Anche alla Maddalena ci fermammo in una zona fuori mano, dove c’era una caserma abbandonata con una pazza che viveva lì e la mattina cantava in un rudere in mezzo ai cespugli alti.

Ma quest’idea del viaggio di nozze con il vostro amico come è nata? Anche lui è fotografo?

No, è architetto e apprendista fotografo come me, perché si è sempre apprendisti fotografi! (sorride) Sai che non mi ricordo a chi sia venuta l’idea? Maurizio era di casa, amico fraterno anche di Marta. Forse gli avevamo detto che saremmo andati in Sardegna e lui ci avrà risposto beati voi, quasi quasi verrei anch’io… e noi gli abbiamo riposto ma vieni! (ride) Con Marta – solo con lei – ho fatto altri viaggi in automobile, però fotografando meno. Ricordo con una R4 in Turchia dove addirittura non avevo portato la camera per paura che me la rubassero. In quegli anni, quando ho iniziato a lavorare in facoltà, nel ’70, con il primo stipendio ho cominciato a viaggiare facendo economia di tutto.

Invece, il ritorno in Sardegna nel 2011?

Era un bando di concorso che avevo vinto per fotografare la Sardegna, ma poi non se ne fece più niente. Il mio tema era qualcosa come la fotografia dei luoghi ordinari. In passato, tutte le fotografie che sono state fatte sulla Sardegna hanno un sapore “antropologico”, anche le mie – soprattutto le prime – si possono leggere da questo punto di vista. Fotografare le case contemporanee è antropologia del presente, in qualche modo si monumentalizza il presente, come ho fatto con la casetta anni ’60 con i due spioventi che non si toccano, progettata dal geometra di turno. In questo lavoro mi sono lasciato prendere dalle cose. Come direbbe Strand, sono le cose che ho visto che mi hanno chiesto – un modo retorico se vuoi – di prendermi cura di loro. Roland Barthes dice che la prima virtù di un artista – ma io dico di un fotografo – è quella del prendersi cura delle cose. Ti segnalo, a questo proposito, la lettera di Roland Barthes a Michelangelo Antonioni… Cher Antonioni… un testo di una grandissima chiarezza, limpidezza, brillantezza (Vorrei, caro Antonioni, che tu mi prestassi per un attimo qualche tratto della tua opera per permettermi di fissare le tre forze, o, se preferisci, le tre virtù che ai miei occhi costituiscono l’artista. Le dico subito: la vigilanza, la saggezza e la più paradossale di tutte, la fragilità – n.d.R.). Ma, poi, tutto Roland Barthes è così.