Guido Fink, scomparso mercoledì scorso a Firenze dove abitava, è stato un intellettuale e un «critico» come probabilmente oggi il nostro paese non può vantarne molti altri. Aveva 84 anni (era nato a Gorizia nel 1935) e fino a pochi anni fa era bellissimo e fecondo incontrarlo a uno spettacolo teatrale, al cinema o a un pubblico incontro, o ancora di più leggere i suoi scritti dove intrecciava un grande sapere alla sua passione e conoscenza dei diversi linguaggi culturali. Letterato di formazione (per moltissimo tempo appassionato docente di angloamericana)ha compiuto analisi taglienti e illuminanti su tutte le forme di espressione artistica. Su molti autori la sua parola e le sue analisi sono state rivelatrici, e spesso «definitive».

Di famiglia ebrea, dovette subire dolori e orrori del fascismo: costretto a trasferirsi bambino a Ferrara con la famiglia dalle leggi razziali del ’38, perse il padre ad Auschwitz dove era stato deportato. Si formò a Ferrara, dove era legato attraverso la madre alla famiglia di Giorgio Bassani, che è solo uno degli scrittori su cui ha lavorato. Perché la sua curiosità andò da Stevenson a Henry James, da Pearl Buck a Mark Twain, da Steinbeck a Hathworne a Philip Roth e a Saul Bellow di cui curò i Meridiani Mondadori.

La scrittura ebraica negli Usa lo affascinava, e la sua Storia della letteratura americana (ripubblicato più volte a partire dal 1991) resta un caposaldo di quel panorama. Ma la sua capacità di analisi gli ha fatto curare e amare anche autori italiani, da Bassani a Pasolini a Flaiano. È stato una collaboratore fedele e prestigioso di una rivista fondamentale come «Paragone letteratura».

Ma non inferiore era la sua curiosità e la profondità nei riguardi del cinema: ha scritto e illuminato sui padri fondatori del grande schermo, da Griffith a Chaplin a Lubitsch, ma scoprendo subito i nuovi maestri degli anni 60, da Kubrick a Cassavetes, ad Altman a Woody Allen. Mentre tra gli italiani, pur curioso del nuovo, aveva dedicato studi importanti ai prediletti Visconti e soprattutto Antonioni.

Aveva cominciato collaborando a «Cinema nuovo», e fu tra i fondatori di «Cinema & cinema». Per non parlare del teatro (di cui è stato per molti anni critico titolare su «Il mondo») dove fu subito tra gli ammiratori di Harold Pinter (passione a cui è rimasto sempre fedele da quando lo individuò sceneggiatore affiatato di Losey), con letture acute di attori e personaggi. Naturalmente grande esperto shakespeariano, fu anche traduttore del Vendicatore elisabettiano, e di O’Neill e di Eliot per la Rai.

Per Guido Fink interessi spettacolari e di scrittura non avevano limiti né confini, quando ancora non esistevano le cattedre di letterature comparate, e quello yiddish era un pianeta composito ma settoriale. La sua cultura era davvero sterminata, ma quello che oggi ce ne farà sentire profondamente la mancanza, era la sua simpatia, l’intelligenza tanto brillante da risultare irresistibile, oltre che geniale. Con lui non ci si annoiava mai, e ogni parola o giudizio, apriva territori e legami nuovi. Ha insegnato davvero molto, al di là dei suoi titoli accademici. E ancora per molto i suoi testi ci serviranno.