Pieno di imperfezioni, di manie e di humour, ferito e senza il dono dell’illusione, come lo vide Cioran in uno dei suoi Esercizi di ammirazione, non si crede che, scomparso ieri a novantuno anni, Guido Ceronetti sia diventato infine un maestro, se non per una schiera di affezionati suoi lettori, per i quali maestro era da sempre. Radicalmente mite e mitemente radicale, fragile e forte insieme, la sua figura – per eccellenza antimoderna e naturalmente aristocratica nel pensiero – è stata variamente controversa e controcorrente: un inattuale che scriveva per i giornali trovando misure irreplicabili per originalità (ma variamente quanto goffamente imitate). Ceronetti ha camminato nel nostro secolo al modo di un flâneur che coglie nel corpo i segni dell’anima e nel pensiero i sintomi del corpo.

QUESTO DICEVA IL LIBRO che lo fece incontrare con molti suoi lettori dal 1979 in poi, Il silenzio del corpo: un libro del sintomo e del segno, indicatore di un’introspezione portata a diventare visione del mondo. Scriveva Cioran (1983) che il libro era emanato «da un’esigenza di purezza» e attestava «un gusto innegabile per l’orrore» e che dunque Ceronetti poteva dirsi «un eremita sedotto dall’inferno. Dall’inferno del corpo. Segno certo d’una salute precaria, anzi minacciata: sentire i propri organi, esserne coscienti fino all’ossessione. La maledizione di trascinarsi dietro un cadavere è il tema stesso di questo libro. Da un capo all’altro – una sfilata di segreti fisiologici che vi riempiono di sgomento». E ancora: «Leggendo Il silenzio del corpo ho pensato più volte a Huysmans, in particolare alla sua biografia di Santa Lydwine de Schiedam. Salvo per l’essenziale, la santità dipende dalle aberrazioni degli organi, da una serie di anomalie. Nessun eccesso interiore senza un substrato inconfessabile, dato che l’estasi più eterea ricorda per certi aspetti l’estasi bruta» (non si vorrebbe mai andasse smarrita la suprema ironia – nel pozzo del tragico – sia di Cioran sia di Ceronetti: «Salvo per l’essenziale, la santità dipende…», come era tra laude e ironia l’esergo del volume, da Paolo ai Corinzi: «glorificate Dio per mezzo del vostro corpo»).

CERONETTI, col Silenzio del corpo aveva dato l’immagine compiuta di sé, nello sfrangiarsi. I libri venuti dopo sono il perfezionamento di quell’abisso, la varia specificazione di questi «materiali per studio di medicina», con bilanciamenti di diversa indole e disperatamente sereni, a cominciare dai Pensieri del Tè (1987): saggi, aforismi, perforazioni. Ci si può immaginare Ceronetti, «salvo l’essenziale», in una zona del nostro Novecento tra Manganelli e Testori: visionari con regolari accensioni di stile, febbri intermittenti, lucidità scoraggianti, sarcasmi, Dio e Nihil. La zona è quella. A chi appartiene dei tre un passaggio come questo? La citazione è un po’ lunga, ma è piena di indizi: «In gioventù ho detestato Sciltian, alfiere accademico, calligrafo maniaco, poi non ci ho più pensato, vistone di rado qualcosa; era quasi del tutto dimenticato. Pensavo di fargli un’intervista, proprio perché personaggio così polveroso e venuto di lontano, violino di chissà quanti ricordi, e di cercarlo a Roma, dove abitava. Le idee io non le piglio dal computer: questa mi era venuta da un cappello. Anzi ma un mare di cappelli. Tutti di Alessandria. Tutti Borsalino. Ecco una cosa che i più arganici critici d’arte ignorano: Gregorio Sciltian ha sempre portato il cappello. ’Da cinquant’anni porto cappelli Borsalino’ dice in una lettera datata 5 dicembre 1984, che mi è stata mostrata in un fluire mitissimo di feltri. Memoria di ferro: ricordava esserci una pittura sua, del 1929, di proprietà della Borsalino, e la richiedeva al suo attuale Presidente per una retrospettiva, o per riprodurla in uno di quei volumi d’arte che vanno in strenna agli industriali con cui si è sofferta una Colazione di Lavoro, agli urologi dopo una prostata finita bene, a volte ai Pontefici, in cambio di una mezzaluna benedetta. Lo Sciltian era stato comprato da Teresio Borsalino quando l’artista aveva studio a Parigi. Il grande Borsalino aveva pagato, signorilmente, in cappelli e Gregorio gli aveva dato un quadro con cappelli, certamente Borsalino».

Rinunciando al gioco delle tre carte, si tratta di una pagina di Albergo Italia (1985), non proprio un altro volto di Ceronetti, ma il completamento della sua Hilarotragoedia. E, a proposito di interviste, indimenticabili le Interviste impossibili di metà anni settanta per la radio ad Attila, George Stephenson, i fratelli Lumière, Jack lo Squartatore e, nientemeno, a Pellegrino Artusi, che ci si sarebbe aspettati di mano di Manganelli: ma la scelta degli intervistati è tutta singolare, forse antifrastica rispetto all’intervistatore. Anche da qui si può vedere come Ceronetti, con parole ancora di Cioran, avesse «tentazioni contraddittorie» e dunque «un debole evidente per il marciume» ma anche per «ciò che vi è di puro nella saggezza visionaria o disperata dell’Antico Testamento».

MA QUANTE COSE ha fatto questo asceta: uno sbircia il risvolto di Albergo Italia e legge un’informazione che non può non essere di mano dell’autore: «Guido Ceronetti, dilettante, traduce, sempre in versi, antichi testi di rivelazione e di poesia». Traduttore dal latino di Marziale, Catullo, Giovenale con versioni così particolari da somigliare a riscritture degli antichi, con rifacimenti in soggettiva che potevano non piacere per vari motivi: non dediti al culto della bellezza ma della sostanza, erano tuttavia di una loro segreta fedeltà agli originali (chi ha già visto il suo Orazio riferisce di una felice soluzione dell’enigma del tradurre). Sia detto con una formula da riportare a postura non consunta: nascevano dalla necessità di incontrare altri tempi e altri spazi, servendosi di una libertà di lettura sempre in atto e che stavolta aveva preso consistenza nel tradurre poesia, come altre volte in cose e fatti. Quasi allo stesso modo si presentavano, ma con più incantamento e meno conflitto, le sue versioni dai libri poetici o terribili della Bibbia: Salmi, Qohèlet, Cantico dei Cantici, Giobbe, Isaia.

LE DUE SUE PASSIONI profonde: la poesia praticata per tutta la vita e consegnata a un volume già riepilogativo nel 1987, Compassioni e disperazioni, al quale si sono aggiunti vari séguiti e riepiloghi, come La distanza (1997); e il teatro: dal 1970 in poi parte della sua vita è dedicata al Teatro dei Sensibili e alle sue marionette. Viaggiò, infine; soprattutto in Italia: un resoconto è Un viaggio in Italia (1983) dove è più manifesto il desiderio di presentarsi quale scrittore satirico. Il senso di questo viaggio è in Albergo Italia: «Un albergo del malessere del fastidio e dell’insonnia. Qua e là, sempre più, dell’ansia, della paura. Ma ha il fascino dei Grandi Alberghi declassati, con le lapidi che ricordano i soggiorni degli Imperatori e dei musici; e poi è il mio»; e continuava: «Tutti frequentano frenetici l’Estero; i più dei miei viaggi io li faccio su e giù per questo albergo dove compensi al malessere e alla vergogna sono una quantità di angoli immaginari, tante stanze non occupate e senza numero sulla porta»: una bella similitudine, adesso, per la sua opera.

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SCHEDA: Teatro dei Sensibili in appartamento

Il Teatro dei Sensibili è un teatro di appartamento, fondato nel 1970 da Guido Ceronetti e dalla moglie Erica Tedeschi nella loro abitazione di Albano Laziale, che si caratterizza per l’uso delle marionette ideofore cui l’attore dà voce e corpo. Riservato a pochi intimi – tra cui Eugenio Montale, Guido Piovene, Valentino Bompiani, Buñuel e Fellini -, nel corso degli anni è divenuto itinerante, pubblico dal 1985. Tra i primi spettacoli il Macbeth (anni ’70, in appartamento)
e «Lo Smemorato di Collegno».