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Guidalberto Bormolini, per un’etica possibile dell’Happy End

Guidalberto Bormolini, per un’etica possibile dell’Happy End

Intervista Meditazione, sogni di rivoluzione, nuovi modi di prepararsi al lieto fine: conversazione con il sacerdote cristiano tanatologo

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 24 dicembre 2022

Guidalberto Bormolini ai profani, proprio nel senso etimologico di chi di norma non entra dentro il tempio (come chi scrive e forse molti di quelli che leggono queste pagine), è noto soprattutto come il religioso cristiano del film di Battiato Attraversando il Bardo dove interviene sul tema della morte accanto ai monaci buddisti tibetani Lama Jampa Gelek e Lama Khangser e al fisico quantistico Jack Sarfatti. E di Battiato il sacerdote cristiano tanatologo era molto amico. « Mi ha detto una volta» racconta «che sono gli eremiti, nel loro nascondimento, a reggere il mondo».

Lo fanno, loro, sintonizzandosi con se stessi e con l’universo, lo fa chi medita, come sanno bene i buddisti. Il tema è uno dei primi affrontati nella conversazione con Bormolini, autore anche del recente L’arte della meditazione edito da Ponte alle Grazie dove nella riflessione sulla pratica si evidenziano come in un esame al luminol le affinità fra le vie mistiche delle diverse religioni – cristianesimo, ebraismo, islam, buddhismo – e gli interscambi che sono avvenuti nel corso dei secoli fra i ricercatori della spiritualità.

Spiritualità e materia, raccoglimento e vita attiva nel mondo sono le non contrastanti dicotomie in cui si muove il discorso con Bormolini che, di una famiglia di fabbri e sua volta falegname e liutaio, è fortemente radicato a terra e affianca la sua attività di assistenza ai morenti e di studioso di discipline ascetiche a quella secolare di artigiano dentro una comunità (il cui nome non casuale è «Ricostruttori nella preghiera») di meditazione cristiana, con sede anche a Prato. Le idee che nascono nella realtà toscana si sono tradotte a volte in soluzioni molto pratiche nella vita civile del territorio dove essa è inserita e dove sviluppa anche una ricerca di sostenibilità e circolarità («abbiamo sostituito il bisogno di infinito con illusione di risorse infinite e bisogni infiniti» dice Bormolini). Il progetto comunitario di Bormolini ha preso corpo dieci anni fa sui monti della Calvana dove guida l’associazione «Tuttoèvita» cui fa capo oltre a un hospice per i malati terminali anche un centro dove persone malate possono integrare le cure che ricevono dal sistema sanitario con percorsi per rafforzare corpo, psiche e spirito. Uno degli esempi più forti della possibile applicazione sul mondo della speculazione spirituale la racconta lui.

Come l’esperienza pandemica ha, se ha, dal suo punto di vista, cambiato lo sguardo sull’aldilà per citare il sottotitolo del docufilm sul Bardo (che non è Shakespeare ma lo stato della mente dopo la morte, quando la coscienza lascia il corpo)?
L’esperienza della morte durante la pandemia in Toscana è stata un caso unico in Italia, l’unica regione in cui la gente non moriva in solitudine, e questa in virtù di una legge da noi ispirata. Collaboriamo con le istituzioni regionali (tra cui il Comitato Bioetico), e abbiamo promosso questa delibera col dott. Donzelli Presidente della Fondazione Ospedale Pediatrico Meyer di Firenze. Il pensiero è stato: negli ospedali, anche in lockdown, potevano entrare molte figure, dai muratori, ai portavivande oltre ovviamente al personale sanitario, persone che servono ai malati. Ecco ai malati, specie a chi è prossimo alla morte, servono anche persone vicine. Abbiamo così partecipato alla stesura della delibera che ha previsto la loro ammissione in ospedale: la presenza amorevole accanto a chi soffre e muore è parte della cura. Rispetto alla percezione sulla morte e la malattia quello che noto è che dopo un disorientamento iniziale la gente è tornata ad anestetizzarsi, con questo ritornello del tornare a come stavamo prima, alla normalità. Quale? quella di un Paese dove ci sono mafia, ingiustizia, povertà, non accoglienza, cultura di guerra? Non vorrei mai!! Questa poteva essere occasione per tornare ad altro, affrontare la questione morte come aspetto della vita, naturale, come naturale e ciclica è la presenza di una forma di peste. Invece si è affrontata la pandemia con il carattere dell’eccezionalità e soprattutto con un linguaggio di guerra, non con un linguaggio di cura. Del malato si dice prendere in carico, come di un sacco di cemento, quando invece bisognerebbe prenderselo a cuore. Questo è alla base dell’insegnamento della nostra scuola (la Scuola italiana di Alta formazione per l’assistente spirituale in Cure Palliative, co-promossa dalla Società Italiana di Cure Palliative, la Federazione Cure Palliative ndr).

La guerra che citi è poi puntualmente arrivata anche vicino «casa». La vicinanza con la morte legata al conflitto porta a qualche forma di innalzamento etico?
Purtroppo ora non sta avvenendo, non vedo un rifiuto categorico e assoluto della guerra, il ripudio sancito dalla Costituzione, piuttosto il rifiuto di alcuni protagonisti della guerra, di alcune conseguenze (economiche) del conflitto. Ignorare la morte rende più vulnerabili, più paurosi; viviamo in società che seppelliscono anche simbolicamente la morte generandone altra, non è naturale. Nel caso della guerra poi temo ci sia anche una deriva di eccitamento, compulsione a cercare immagini e notizie senza coinvolgimento. Non si riconosce più negli altri l’essere umano, è quello il confine superato il quale si diventa disumani. Quello che è accaduto nei campi di concentramento, la disumanità è lì, non nel peccare che è umano, o nel perseverare che pure è umano. Si rimane umani riconoscendo l’umanità altrui.

Il tuo pensiero su eutanasia e cure palliative?
Esiste la possibilità di sedazione; se un dolore è refrattario al trattamento si ha il diritto e il dovere di lenirlo: la gente non deve soffrire. Le cure palliative non sono accessibili per tutti, solo un italiano su quattro è a conoscenza della loro esistenza e non ne ha comunque un’idea esaustiva. Non siamo una società di cura, dovremmo tagliare le spese militari a favore di quelle sanitarie e ritengo manchino le premesse per un reale dibattito tra i due estremi: evitare la morte volontariamente con l’accanimento terapeutico o procurarla volontariamente con l’eutanasia; è un tema che non si può affrontare davvero quando manca la cura essenziale e tutti i passaggi intermedi. Le cure palliative possono accompagnare a una morte lenita, anche piena di amore. Bisogna arrivare a questa possibilità e poi affronteremo tutto il resto.

Non ti piace la parola compassione.
Non mi basta, vorrei si condividesse anche la gioia, congioire sarebbe perfetto; le parole sono importanti e ambivalenti. Anche empatia lo è: il torturatore sente il dolore della sua vittima, altrimenti non ne godrebbe. Anche per povertà in alcune lingue ci sono due parole differenti per definirla, c’è quella provocata dalla sopraffazione e quella scelta e libera di San Francesco. Per non parlare della solitudine: c’è l’isolamento come quello conosciuto in lockdown, c’è la solitudine dove crescere, quella che ha contraddistinto la vita di molti sapienti, della meditazione.

Che è il tuo esercizio di trascendenza.
Sì, nelle culture più arcaiche si ritualizzava il distacco, la morte ma anche la trasformazione, con abbandoni nel folto della foresta, sepolture simboliche. Si accettava il passaggio come parte della vita. Si muore a ogni cambiamento: come bambini quando si diventa adulti come single quando si diventa coppia. Oggi scollegati dalla natura e dalla comunità (cui siamo connessi in modo occasionale e non intimo) servono altre strade; quella che ho trovato e propongo è la meditazione che ha una base antropologica universale e elementi comuni a cristiani, musulmani, buddhisti, induisti. Talmente universale che ognuno la fa propria senza snaturarla. Si resta in silenzio, si rallentano o annullano i pensieri, cosa non banale oggi. Si fa scendere la mente nel cuore; la via logica e discorsiva può portare allo scontro, a una opposizione, porta ambivalenze e fraintendimenti; col respiro, con il battito del cuore non ci si sbaglia, sono gli stessi per tutti, la vita ci rende uguali e ci supera. Anima è soffio e respiro in tutte le lingue antiche.

Ma bisognerà pure che il corpo esulti, cantava Battiato traducendo. Lo abitiamo e dovremmo curarcene oltre che curarlo nella patologia.
Il corpo è importantissimo, il tempio dell’anima, bisogna prendersene cura e fare sì che si esprima, bisognerebbe danzare, recitare, non per l’esibizione ma per l’atto in sé. Anche amare, possibilmente in modo totale e pieno, è giusto vivere la vita in pienezza e non tutti ne sono capaci. Il corpo non è la macchina con cui trasportare il cervello.

Il contatto con la materia è importante nella ricerca spirituale? Tu sei artigiano, sei stato liutaio alle prese con una materia risuonante.
Costruire è attività quasi divina e il verbo biblico usato per lavorare è lo stesso con cui ci si riferisce all’azione di Dio; la condanna delle Genesi non è il fatto che ci tocchi lavorare, ma il farlo malvolentieri, non più gioiosamente. Al di là delle brutalizzazioni che se ne sono state fatte, il lavorare eleva, è una condanna se lo so si fa schiavizzati, per il profitto degli altri, a condizioni inique, senza l’obbiettivo di costruire qualcosa di bello. Starei male senza lavoro manuale, la mia era una famiglia di fabbri, credo sia una fortuna, così la spiritualità non è slegata dalla concretezza, rimane centrale il rapporto con gli altri e non si rischia di farla diventare un egoismo mascherato.
I miei sogni di rivoluzione sociale li ho mantenuti raggiungendoli altrove passando prima per una rivoluzione spirituale: riflettevo con Moni Ovadia, non può esserci una di queste rivoluzioni senza l’altra. Siamo indoeuropei, siamo intessuti di sogni, corpo, psiche, spirito: non ci si può prendere cura di una parte sola senza tradire tutto il resto.

La condanna maschile è lavorare col sudore della fronte, quella femminile partorire con dolore. Lavoro e travaglio in alcuni idiomi sono indicati con la stessa parola.
Anche in questo occorre dare qualità alle parole, partorire un’idea non lo associ al dolore. E generare non dovrebbe conoscere genere; generare il bene è caratteristica maschile e femminile, abbiamo entrambe le componenti, la crescita è armonica quando si sviluppano tutte le qualità. Anche il maschio dovrebbe essere generativo, poi prevale altro.

Nella vostra comunità esercitate l’ecologia spirituale, in che modo?
Abbiamo avviato una ricostruzione eco-sostenibile, affinché il Borgo di Mezzana, abbandonato negli anni Sessanta, ritornasse a vivere secondo i principi dell’ecologia integrale e sociale e secondo la vocazione all’accoglienza ed all’integrazione. Mezzana è ora rinato come villaggio e sarà abitato da alcune famiglie con bambini e da una piccola comunità di monaci che vive qui una vita di condivisione e spiritualità basata su un rapporto essenziale e diretto con la natura e che offra ai cittadini servizi in ambito sociosanitario, culturale, ecologico e d’integrazione attraverso il dialogo interculturale e interreligioso. Chi abita qui si sostenta lavorando la terra con coltivazioni biologiche, non si consuma carne macellata.

Woody Allen dice di pensarla ancora come un tempo sulla morte: è contro. Conduci la tua ricerca spirituale con frequenti incursioni in altre culture e culti. La risata, cara al mondo ebraico, può essere un antidoto alla paura dei viventi, e può esserci una divinità divertita?
La risata è efficace e interessante, per la casa Editrice fiorentina, quella che ha pubblicato Lettera a una professoressa di Don Milani curiamo una collana, la «Tutto è vita», dove è uscito il libro di Carlo Lapucci La vita a lieto fine. La lunga ironia del mondo popolare sul nostro trapasso”che parla di questo. Anche se sono contro ogni antropomorfismo (non penso che bisogna concepire Dio come un essere umano ma semmai fare entrare l’Uomo nella vita divina) credo non vada bene percepire Dio come un essere incapace di partecipazione. E se il divino compatisce, può anche congioire e quindi sorridere.

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