Si intitola Miopia il quarto album di Gui Amabis – musicista e produttore di São Paulo – una delle voci più originali dell’instancabile scena musicale di un Brasile che cerca le strategie e le strade per uscire dalla fosca stagione in cui si vorrebbe ricacciarlo.

«Un grado di miopia che aiuta a finire il giorno in un modo migliore». Titolo del disco, traccia che chiude il lavoro, è una canzone che hai composto anni fa per il progetto Sonantes. Perché hai deciso di riprenderla?

È una canzone che ho provato a inserire in tutti i miei dischi, dal primo, senza riuscirci. È la prima canzone che ho avuto il coraggio di mostrare ad altri, la prima che mi sembrava avesse senso mostrare. Inizialmente era un bolero, e così l’ho già incisa due volte, ma in questo lavoro sarebbe stato fuori luogo e fuori suono, così io e Regis Damasceno abbiamo deciso di registrarla libera, solo chitarra e voce, sciolta, senza ritmo. L’ho scelta come titolo perché penso che in Brasile mai come ora le persone abbiano bisogno di questo per poter dormire la notte. È una situazione molto difficile, la peggiore che io abbia vissuto; sono nato durante la dittatura, nel 1976, ma stava finendo e non era più così violenta come all’inizio: di lì a poco ci sarebbero state le prime elezioni per i governatori, mentre le presidenziali sarebbero arrivate molto dopo, nel 1989.

Un pezzo che rappresenta un tuo momento di sempre ma anche un momento preciso del Paese…

Credo che questo brano conversi con tutti gli altri. C’è Para Mujica, che parla del tempo, dell’uso che ne facciamo, di come ne dimentichiamo il valore utilizzandolo per comprare beni, accumulare ricchezze, spendendo quello stesso tempo che non potremo più comprare.

Quali sono i «lavori carnivori» che tratti nel tuo secondo album?

Quando la Terra si formò si crearono le condizioni dalle quali la vita evolse, la sopravvivenza era possibile solo adattandovisi: una cosa che si organizzava nella carne, nelle cellule, nella materia. Trabalhos Carnivaros parla di come si è organizzata la vita e dell’importanza della carne in questo processo, contrapposta all’amore, che non ha nulla a che vedere con l’evoluzione. I miei genitori erano biologi e a pranzo si parlava sempre di argomenti scientifici: Darwin, la teoria dell’evoluzione. Mio padre non parlava mai di sentimenti.

Come hai iniziato a fare musica?

Ho cominciato ad apprezzare davvero la musica intorno ai 13-14 anni ascoltando Bob Marley, ho iniziato a cantare, poi a 23 anni decisi di seguire questa carriera, mi misi a studiare, principalmente canto. Molto tardi, tutti i miei colleghi hanno cominciato da adolescenti, se non da bambini… io surfavo, nuotavo, insegnavo educazione fisica, ero felice, ma la musica è stata più forte. La mia vita professionale è iniziata quando mio fratello (Rica Amabis, produttore, musicista, ideatore del progetto Instituto, ndr) mi presentò Antonio Pinto (autore, fra le altre, delle colonne sonore di City of God e Central do Brasil, ndr) e sono diventato il suo assistente di studio. Cinque anni a passare l’aspirapolvere, sistemare i microfoni, preparare gli studi: niente musica, non sapevo fare niente, avevo 23 anni e non avrei potuto dire a mio padre di pagarmi un corso di missaggio, di produzione. Il patto con Antonio era uno scambio lavoro contro insegnamento, senza soldi, finché non fui pronto per essere messo sotto contratto. Diventato assistente tecnico, mi capitava di restare in studio una volta finite le sessioni, facendo missaggi al computer, lavorando con samples, creando, sperimentando. Una volta che ero rimasto tutta la notte in studio, al mattino Antonio arrivò e ascoltando quello che stavo facendo disse di voler mettere quella musica nella scena di una film. La produzione la approvò e lui me ne chiese altre, e cominciai a lavorare con lui. È stato allora che ho iniziato a scrivere canzoni, misi su il progetto Sonantes.

Continui a comporre ancora colonne sonore?

Sì, sto facendo le musiche per una serie tv della HBO sulle scrittrici brasiliani – Adelia Prato, Conceiçao Evaristo, Cora Coralina – e adesso inizierò a lavorare anche per la terza stagione di una serie Netflix che si chiama 3%.

Come intervieni sul suono e sulle parole nelle tue composizioni?

Sono stato un pessimo studente di portoghese, rimandato quasi tutti gli anni, e ora mia madre non può capacitarsi di come sia diventato, come dice lei, un poeta. Mi preoccupo moltissimo delle parole, come delle persone, rispetto molto le une e le altre. Cerco di incastrarle nella forma che sia al contempo più chiara e meno chiara possibile, per lasciare spazio alle immagini che le persone ne possono far scaturire, perché possano ascoltare e vedere le cose. Forse lavorare molto alle colonne sonore ha fatto sì che le immagini fossero tanto importanti per me, le immagini delle parole.

Com’è la situazione in Brasile, con questa politica di tagli feroci alla cultura, all’istruzione?

Siamo tornati a un’era pre-Lula: la tradizione in Brasile è da sempre non prestare attenzione alla cultura, Lula e Dilma Rousseff avevano invertito la rotta, convinti che la cultura sia una parte dell’educazione, ci hanno investito moltissimo, hanno aperto decine di università federali. Il nuovo governo sembra più interessato a diseducare, piuttosto. Gli artisti ne stanno soffrendo molto, la musica è tornata marginale nel senso letterale del termine: è ai margini della società.

Credi che questo possa per reazione dare più forza alla musica, ai musicisti?

No, può dare forse più libertà. Quando la cultura è sistematizzata, a volte gli artisti cercano di inquadrare il proprio lavoro perché possa entrare nelle istituzioni, perché ne sia accettato. Io non credo che la repressione aiuti la creazione artistica. Credo piuttosto che quando ci si trova in una fase di recessione economica, le persone abbiano più tempo e creino di più, trovandosi in casa, senza lavoro, con il bisogno di liberarsi dall’angoscia. È l’angoscia, non la repressione, a stimolare la creatività.

Mi parli della scena di São Paulo oggi?

È molto forte, ci sono tantissimi artisti perché è uno dei pochi posti dove si riesce a suonare dal vivo, è una scena alla quale partecipano a pieno diritto decine di musicisti che arrivano da altri posti. São Paulo è il centro economico del Paese, ci sono un mucchio di locali, vi si producono le colonne sonore, gli artisti si mescolano…ma credo che l’avvento del digitale, la possibilità di registrare facilmente, di diffondere il proprio lavoro sul web sia oggi molto più importante di São Paulo. Sono le persone che ci vivono a essere ispiratrici, non la città. Quando esci dall’aeroporto incontri un fiume sporco, puzzolente, la proprietà privata si è impadronita della città, non ci sono spazi pubblici, le uniche oasi sono i Sesc.

Un’ultima domanda, perché hai deciso di produrre l’italiano Marco Iacampo?

È stata una sorpresa per me la sua telefonata. Non capisco bene i suoi testi, ma di lui mi sono piaciute le canzoni, la voce e anche il modo di approcciarmi. La differenza con le produzioni brasiliane sta nel legame che conservano gli italiani con uno schema più tradizionale di fare musica, in Brasile è più «si può fare tutto», nessuno si preoccupa dell’impatto radiofonico o di ingraziarsi il pubblico, mi sembra sia una musica più spontanea. Gli italiani sono più legati a regole fissee. Ma Iacampo è stato molto aperto, ci ho lavorato bene. È una coproduzione con Lezziero: io ho realizzato una sorta di bozzetto che loro hanno colorato e finalizzato. Sono contento del risultato che abbiamo ottenuto.