Riesplode la protesta in Libano. Dall’Akkar a Tiro passando per Beirut, i manifestanti sono tornati in massa in strada, dopo poco più di un mese in cui la protesta, sebbene non rientrata, si era certamente nei numeri ridimensionata.

Le manifestazioni scoppiate il 17 ottobre al grido di kullun, ya’nee kullun (Tutti vuol dire tutti) contro tutta la classe politica libanese da decenni in carica e la corruzione imperante, andate avanti per settimane in modo pacifico pressoché ovunque in Libano, sembrano voler adesso cambiare volto.

Il 29 ottobre il primo ministro Saad Hariri (in carica comunque fino al nuovo governo) consegna le dimissioni. Il 19 dicembre viene assegnato a Hassan Diab l’incarico di formare un nuovo esecutivo che ad oggi non si è ancora insediato perché in fase di consultazione, e quindi di stallo.

Nel frattempo la più importante crisi economica dalla guerra civile (1975/’90) mette in ginocchio il Libano: le banche hanno limitato l’uso dei conti correnti e dei prelievi e vietato i trasferimenti all’estero; non emettono più ormai da settembre dollari americani, moneta ufficiale assieme alla lira libanese, che al mercato nero è schizzata quindi a 2.200/2.500 sul dollaro, mentre al cambio ufficiale della Banca Centrale un dollaro è pari a 1.500 lire.

In aggiunta aumentano i disservizi, soprattutto quelli legati all’elettricità – gestita dalla Compagnia a monopolio statale Edl, «altamente suscettibile di utilizzo politico e corruzione», dice il Lebanon Support-Knowledge Center, e da una miriade di gestori privati – e alle compagnie telefoniche.

Anche i luoghi e i modi della protesta sono cambiati. I manifestanti, o parte di essi, non si limitano più ai blocchi stradali, all’incendio di pneumatici, ai sit-in di protesta. La mancanza di risposte politiche ed economiche concrete alla crisi fa aumentare la tensione in tutto il Libano e allora banche e atm diventano gli obiettivi principali della protesta.

Beirut è stata martedì lo scenario principale e la sintesi di questo cambiamento. A Downtown, il quartiere che ospita il parlamento, presidio stabile della rivolta, nel pomeriggio sono avvenuti duri scontri tra polizia e manifestanti, dispersi dal lancio di gas lacrimogeni e getti d’acqua. I rivoltosi si sono allora spostati a Hamra, quartiere nel cuore di Beirut, e precisamente alla Banca Centrale, altro presidio stabile, dove si sono uniti a quelli presenti sul posto.

Racconta Mariam Ismail, 23 anni, laureata in matematica e ora disoccupata come la maggior parte dei giovani libanesi: «Uno di noi ha cercato di saltare i cancelli e aprirli. Allora la polizia ha cominciato a caricarci e picchiarci e a lanciare gas lacrimogeni. Poi hanno arrestato Alexander Paulikevitch (famoso ballerino, performer e attivista). Allora ci siamo spostati lungo la strada principale di Hamra».

La tensione ha continuato a salire e gruppi di manifestanti hanno frantumato prima le vetrate di una sede della Bank Beirut con spranghe di ferro ed estintori e poi hanno continuato con altre banche e atm lungo la strada. Molti dei manifestanti, vista l’escalation, si sono rifugiati in bar e ristoranti, mentre fuori si è scatenata una vera e propria guerriglia tra i rivoltosi che lanciavano pietre e oggetti vari e la polizia che lanciava lacrimogeni.

Gli scontri sono terminati nella notte con un bilancio di 47 feriti e 59 arresti, molti dei quali rilasciati ieri. Ayman Raed, avvocato, ha parlato ad al-Jadeed Tv di «violazione degli standard dei diritti umani» da parte della polizia.

L’Associazione delle Banche ha invece condannato gli attacchi come atti di vandalismo e si augura che i «manifestanti onesti, che noi rispettiamo, espellano dai loro ranghi questi infiltrati» che non sono «veri rivoluzionari», ma sono stati «pagati da qualcuno» per compiere azioni violente, non specificando però da chi o come.

Anche Hariri, come altre figure politiche di rilievo, ha condannato gli eventi parlandone come di attacchi inaccettabili dei quali non vuole «incolpare i manifestanti e la loro legittima rabbia contro le banche», anche se restano una «macchia ingiustificabile nella rivolta».

Se si tratti di infiltrati, di gruppi pagati da «qualcuno» per destabilizzare la protesta, estremizzarla, per mettere in atto una strategia della paura che tenga la gente comune lontana dalle strade, se sia il frutto dell’esasperazione dei manifestanti inascoltati, un mix di elementi eterogenei, al momento è difficile da stabilire. Ciò che però è sicuro è che la protesta è entrata in una nuova fase.