In un suo editoriale sul «Foglio», facente seguito all’uccisione per decapitazione del giornalista americano Steven Sotloff, Giuliano Ferrara ha affermato che «con l’Islam è guerra di religione». Le posizioni di Ferrara hanno immancabilmente questa caratteristica: il conformismo proposto in salsa trasgressiva. Con gli anni si è guadagnato un consenso stabile tra tutti coloro che non potendo tollerare il dubbio e la sospensione/sedimentazione del giudizio si dilettano con i paradossi. Da un po’ di tempo la sua vena trasgressiva (che non disdegna l’avanspettacolo) si sta trasformando in aperto squilibrio e il discorso paradossale in farneticazione: la prova che il suo conformismo stia diventando irrigidimento psichico, rattrappimento. Parabola esistenziale che segue il destino di un modo diffuso di vivere in cui la parodia si è sovrapposta al dramma.

La tesi di Ferrara è, in sintesi, questa: il nostro Dio («incarnato, crocifisso, umile e grande») è stato abbandonato da noi e rischia di soccombere al Dio degli infedeli («profezia, mistica, politica, scisma») che nessuno di loro abbandona (né i moderati né i fanatici). La soluzione proposta: una «violenza incomparabilmente superiore» alla «brutalità santificante» degli islamici. L’editoriale è, nel suo insieme, un’accozzaglia di considerazioni logicamente deboli e contraddittorie ma è proprio la sua illogicità che gli consente di passare sopra le contraddizioni e trovare la propria coerenza (che, come in tutti i discorsi irrazionali, è ferrea) nella professione di un’invincibile volontà di violenza.

La brutalità degli esseri umani non è legata alla loro religione, per quanto (a guardare la storia) nella distruttività i cristiani vantino una superiorità innegabile sui musulmani. Le religioni, indipendentemente da ciò che professano, nei confronti delle guerre sono neutrali: non le determinano e non le arginano. Tuttavia è nella loro natura la possibilità che diventino il pretesto e lo strumento della furia omicida. Ciò che nelle religioni favorisce il loro uso per scannare il prossimo è il loro assetto dogmatico e la loro funzione consolatrice. La fede in una verità assoluta, incontestabile che non ammette differenze di opinione e approcci critici è una scusa buona per scaricare sull’infedele di turno l’odio per il diverso con cui si nega la propria paura (anoressia) di vivere attribuendola alla presenza infettante di lui. E la consolazione religiosa (la soddisfazione del desiderio diventata appannaggio di un’idealità e dilazionata a tempo indeterminato), che seduce la psiche dissociandola dalla corporeità dell’esperienza vissuta, può diventare uno strumento molto efficace di anestesia nei confronti del senso di mancanza che sbilancia, sposta l’uomo verso la differenza dell’altro. Cos’altro sono gli automi che uccidono senza pietà che esseri anestetizzati?

Dietro la carneficina che continua per la sua strada, fregandosene della «guerra di religione» con cui si cerca di dare senso e legittimazione alla violenza pura, agisce l’in-differenza affettiva in cui una folle gestione delle relazioni di scambio ci ha gettati. La nostra apatia è generatrice di una incomparabile violenza invisibile che distrugge i nostri legami con la vita. Isis la rende visibile, la materializza.

Ai nostri occhi appare come ovvio che il cancro Isis vada estirpato. Che poi si pensi che la chirurgia possa da sola eliminare il pericolo di recidive o di metastasi l’esperienza ci dice che non sia prudente. Soprattutto se il cancro situato ai confini tra l’Irak e la Siria è la metastasi di un tumore primario che alloggia nell’Occidente.