Fino a qualche mese fa, era opinione diffusa che l’area del mondo più a rischio fosse quella del Pacifico. La corsa agli armamenti di Cina, Giappone e molti altri paesi asiatici – a causa delle tante contese territoriali – lasciava presagire il rischio di una crisi, capace di rivoluzionare gli assetti geopolitici della zona e non solo. Del resto, in ogni occasione utile, la Cina ha sottolineato i propri investimenti in droni e nella cosiddetta «cyberwar», a testimonianza dell’importanza attuale non solo delle armi. Pechino aveva anche istituito una zona di difesa aerea sulle isole contese (le Diaoyu per i cinesi, Senkaku per i giapponesi), che aveva finito per irritare Giappone, Taiwan, Filippine e Vietnam e naturalmente Obama e Washington. Proteste anti Pechino avevano sconvolto Hanoi, mentre Tokyo sottolineava la propria vocazione militare, con le visite dei suoi politici ai santuari dei suoi combattenti in guerra, criminali per Corea e Cina (e dimostrando tutto il proprio vigore, ponendo in pieno centro della capitale il proprio arsenale anti missilistico, a seguito delle minacce della Corea del Nord). Era quella l’area sulla quale si concentrava l’attenzione mondiale, la zona del mondo, simbolo dell’ascesa della potenza cinese.
Il motivo – del resto – era molto semplice: ad un mondo guidato dall’imperialismo americano, da tempo si contrappongono potenze che nelle proprie aeree spingono per una nuova egemonia. Stati che nei confronti degli americani hanno un atteggiamento spavaldo e per niente deferente.
Da tutto questo, Washington ne risulta indebolita, nell’influenza e nella forza. E il Pacifico assumeva i contorni della prova del fuoco: la strategia americana di «pivot to Asia», è contrastata dalla Cina, creando una carambola di conseguenze dall’afflato mondiale. Gli eventi di questi ultimi mesi, hanno invece dimostrato che questa tendenza non è solo asiatica, ma ormai mondiale e lo scoppio quotidiano – o la ripresa – di conflitti (Ucraina, Gaza, Iraq, Siria) dimostra che questa modifica negli assetti globali è ormai nella sua fase più attiva, non solo nelle zone vicine alla seconda potenza mondiale, la Cina, e si manifesta nel mondo consueto con cui si risolvono le crisi nel capitalismo: attraverso le guerre.
Per questo Wars on demand, un libro a cura di «Vicenza libera dalle servitù militari» (Agenzia X, euro 13), è un volume fondamentale per interpretare e comprende quanto sta accadendo ed è per certi versi una sorta di anticipazione di tutto quanto potrebbe accadere nel più immediato futuro. Non a caso, gli autori degli interventi ospitati nel libro si concentrano soprattutto sull’area asiatica (isole contese e basi americani a Guam, in Giappone, ad esempio), ma le linee generali dimostrano – utilizzando spunti che vanno dall’uso dei droni, alla conquista «militare» dello spazio, fino alla nuova guerra informatica – questo cambiamento paradigmatico negli equilibri geopolitici. Come scrivono nella premessa Duccio Ellero, Vilma Mazza e Giuseppe Zambon, «siamo dentro un passaggio geopolitico da quella che era stata definita la fase dell’Impero, in cui una sola potenza, gli Usa, imponeva il proprio dominio anche tramite le strumento guerra, a una in cui emergono con determinazione potenze continentali che assumono un rapporto politico, economico e militare, decisamente conflittuale con la precedente potenza egemone».
I fatti di queste ultime settimane lo dimostrano in pieno. Cosa è la guerra in Ucraina, se non uno scontro tra la Russia, che Putin vorrebbe riportare agli antichi fasti di dominio della sua area di influenza, tramite il riavvicinamento di quegli ex stati sovietici che gli permetterebbero di creare distanza tra Europa a occidente e Cina a oriente, e la Nato a guida Usa che prova a recuperare un paese che ha di fatto portato alla divisione e a lacerarsi con una guerra dall’esito ormai sempre più incerto (e dove muoiono, come in ogni conflitto che si rispetti, per lo più i civili)? Per altro il conflitto ucraino racconta anche un’altra cosa: che nonostante i droni e le moderne tecnologie, la guerra è ancora fatta con uso di artiglieria, a colpi di mortaio e con probabili missili terra- aria capaci di colpire anche aerei commerciali in volo sulle zone di conflitto. Del resto anche la recente guerra di Gaza, potrebbe venire interpretata come una sorta di autonoma politica di potenza di Israele (non a caso il rapporto con gli Usa può essere definito in lieve crisi, ultimamente), a fronte anche di quanto sta succedendo poco distante. Non tanto e non solo per l’Iran e la sua influenza nell’area, quanto per la politica di conquista, di «potere» (come ha spiegato ieri sul Manifesto Giuliana Sgrena) dei jihadisti del Califfato, usciti dal disastro siriano. Scontri, geometrie, che manifestano la decadenza di un impero (secondo i neocon ben impersonata dalle incertezze di Obama in politica estera) che ha trovato un suo momento simbolico nel «fronte interno» americano, con i recenti scontri – di classe, non solo razziali – a Ferguson, in Missouri. L’emblema della crisi del gendarme del mondo, che deve ormai guardarsi, a causa della crisi economica, dal suo «fronte interno».
War on demands presenta dunque una carrellata di zone di guerra e di strumenti di guerra, indispensabile bussola nelle nuove aritmetiche di potenza attuali, a seguito del fallimento di quelle passate. Basti pensare all’Iraq. Come scrive Domenico Chirico di «Un ponte per», dopo dieci anni dalla guerra americana «in uno dei paesi più ricchi di petrolio al mondo, la maggioranza della popolazione ha al massimo sei ore di elettricità al giorno, uno su quattro non ha accesso ad acqua potabile, il 20% della popolazione è analfabeta, i casi di malformazione, conseguenza del massiccio uso di armi chimiche e uranio impoverito durante la guerra, sono in continuo aumento con percentuali simili in alcune aeree a quelle di Chernobyl». In tutto questo panorama, ci sono anche gli «imperialisti straccioni», alla ricerca delle briciole di influenza cadute dai tavoli dei «grandi», naturalmente. E i casi delle lotte del movimento «No Dal Molin» e «No Muos», raccontano che l’Italia, come dimostrato dalla recente decisione di armare i peshmerga in Iraq, non è esclusa da questo «mondo in guerra».