Il centenario della Grande Guerra è una delle non molte occasioni di questo genere – esercizi della memoria e del confronto tra passato e presente – che credo meriti di essere presa sul serio. Ci penso da molto tempo, ho accumulato libri e materiali, ma non sono ancora sicuro della giusta direzione che dovrebbero prendere le mie – per quanto limitate – capacità di riflessione e di indagine.

Di una di queste direzioni, in verità, sono abbastanza sicuro, e riguarda il modo in cui noi uomini viviamo il rapporto con la violenza. Qui devo districare un miscuglio di sentimenti e di pensieri che vanno dalle discussioni attuali sulla violenza maschile contro le donne – con altri amici (di Maschile plurale) ho condiviso il rischio di affermare che il problema ci riguarda – ai ricordi di come da giovane, dopo il ’68, abbia fatto i conti con un altro rischio: che la violenza politica, riconosciuta razionalmente come una realtà non eludibile e forse una necessità, diventasse anche un’esperienza di vita. Una scelta in cui – come tanti altri – avrei potuto perdermi.

C’è una continuità, credo, tra le forme della violenza che ci può capitare di vivere, di agire e di subire. Così come c’è una continuità nel tempo e nelle dimensioni globali della guerra nata in quel biennio – 1914-15 – in Europa. Lo ha ripetuto Sergio Romano nel libretto sul 24 maggio 1915 distribuito domenica con il Corriere della Sera: «La Grande Guerra, in realtà, non è mai terminata. Il periodo fra le due guerre fu soltanto una lunga tregua, interrotto da continui aggiustamenti territoriali, sino al giorno, nel settembre 1939, in cui ne sarebbe scoppiata un’altra, non meno sanguinosa e crudele della prima. La pace venne finalmente nel 1945 e durò in Europa fino alle guerre jugoslave della prima metà degli anni Novanta. Ma preferimmo chiamarla “Guerra Fredda”».

Bisognerebbe proseguire la cronologia, ricordando come Papa Francesco abbia parlato per l’oggi di una «guerra mondiale a pezzetti», con una delle sue immagini che hanno immediatamente rivelato una verità. E basta pensare come la guerra del cosiddetto Califfato affondi certe sue radici fino alle scelte e alle battaglie che proprio nei primi decenni del secolo scorso furono combattute tra Occidente e Islam in quel pezzo di mondo.
Nella babele mediatica che investe anche il centenario le tentazioni di una ricorrente retorica patriottica si sovrappongono a approfondimenti critici più interessanti. Sarebbe utile forse anche riflettere sulle diverse modalità di riandare criticamente alla Grande Guerra lungo il secolo che ce ne separa.
Ho trovato su una bancarella un vecchio libro dello storico Renato Monteleone, che nel ’73 aveva raccolto e pubblicato per gli Editori Riuniti una scelta delle tante lettere, per lo più anonime, indirizzate dal “popolo” a re Vittorio Emanuele III lungo gli anni della guerra. Una delle ultime, firmata invece, da tre sorelle, recita dopo la data, 2 agosto 1918: «Egregio Signore, le scrivo queste righe per dirle che se non finirà la guerra vedrà cosa le faremo, le taglieremo il collo, le faremo tutti i dispetti che potremo (…) E noi sorelle non abbiamo paura né di lui né dei carabinieri, né dei marescialli, di nessuno. E deve mandare in Italia i miei fratelli…».

Mao diceva che o la rivoluzione impedisce la guerra, o la guerra provoca la rivoluzione. Solo la seconda previsione si è avverata (a parte l’esito poi negativo delle rivoluzioni provocate). Una rivoluzione tanto forte – e pacifica – da vincere la guerra è quello che bisognerebbe essere capaci di pensare e di fare.