La scorsa settimana il quotidiano israeliano Haaretz scriveva che negli ultimi anni lo Stato ebraico sarebbe riuscito a colpire una dozzina di petroliere iraniane, infliggendo perdite a Teheran per miliardi di dollari.

Ora, l’emittente tv israeliana Channel 12 rende noto che un missile iraniano avrebbe colpito un cargo di proprietà della società XT Management presieduta dall’imprenditore israeliano Udi Angel. Navigava dalla Tanzania verso l’India, nel Mare arabico.

Avrebbe subito danni lievi e ha continuato la navigazione. Le autorità israeliane stanno verificando, per ora non ci sono reazioni ufficiali. Nessun commento nemmeno da Teheran. Un mese fa si era verificato un episodio simile davanti alle coste dell’Oman (a sud dello stretto di Hormuz), quando un’esplosione aveva danneggiato la Mv Elios Ray, battente bandiera panamense e di proprietà di un armatore israeliano. Lo Stato ebraico aveva accusato l’Iran.

Due settimane fa era stata la portacontainer Shahr-e Kord di proprietà della Iran Shipping Lines Group a essere colpita e danneggiata mentre era in navigazione nel Mediterraneo. L’incendio era stato domato dopo poco tempo, senza che nessun membro dell’equipaggio fosse ferito e il cargo aveva proseguito il viaggio. L’Iran aveva puntato il dito contro Tel Aviv.

Non lo dicono, ma Israele e Iran sono in guerra. In questi anni il Mossad ha assassinato diversi scienziati nucleari iraniani e – come ha rivelato due settimane fa un’inchiesta del Wall Street Journal – negli ultimi due anni 12 petroliere iraniane, per lo più dirette in Siria, sono state oggetto di attacchi o hanno avuto guasti improvvisi ai macchinari riconducibili ad Israele.

Secondo Haaretz, grazie a questa lunga catena di attacchi e di sabotaggi è stato inferto un duro colpo ai finanziamenti iraniani destinati al potenziamento militare degli Hezbollah libanesi.

Di certo questi attacchi hanno causato perdite ingenti di denaro, ma pare non abbiano provocato vittime né danni ambientali. In realtà, i danni ambientali ci sono, ma non sarebbero dovuti ad attacchi: secondo Greenpeace all’origine della marea nera che a fine febbraio ha inquinato la costa mediterranea di Israele potrebbe esserci la petroliera iraniana Romina e non, come sostiene la ministra israeliana dell’ambiente Gila Gamilel, la Emerald di proprietà libica partita dall’Iran. In entrambi i casi, la strumentazione di trasmissione era rimasta spenta a lungo e le navi non erano state sottoposte a una manutenzione rigorosa. Per lo Stato ebraico, si tratterebbe di «terrorismo ambientale».

Nel Golfo persico e nel Mediterraneo la saga delle petroliere va avanti da anni e coinvolge, oltre all’Iran e a Israele, altri paesi. Nel 2019 i pasdaran sono stati accusati di aver preso di mira le petroliere emiratine e saudite in transito nel Golfo persico, danneggiate da mine magnetiche. Accuse che Teheran respinge.

L’energia costituisce da sempre un fattore competitivo strategico e per questo finisce nel mirino, ma quando sale la tensione sullo scacchiere mediorientale a pagare il conto è il consumatore.

Durante la guerra Iran-Iraq (1980-1988) Saddam aveva colpito le petroliere e i pozzi iraniani, obbligando Teheran a importare energia e a razionare la benzina sul mercato nazionale. In questi decenni le forze armate iraniane hanno minacciato a più riprese di chiudere lo Stretto di Hormuz, da cui transita un terzo del gas liquefatto e un quarto del petrolio del pianeta.

Nel settembre 2008 questo scenario aveva innervosito gli Emirati. Pur adoperandosi per trovare una soluzione diplomatica, erano arrivati a proporre di costruire un oleodotto per trasferire petrolio e gas dalle coste settentrionali del Golfo persico alle coste meridionali, per evitare lo Stretto di Hormuz. Altri avevano invece proposto di tagliare un canale nel deserto per farvi passare le petroliere, sul modello del Canale di Suez e del Canale di Panama. Il costo, previsto in 200 miliardi di dollari, era però esorbitante.