Laura la troverete facilmente: in ogni festival di fumetto che si rispetti, allo stand di Comic Out, seduta o in piedi, a chiacchiera con un autore o un allievo, un collaboratore o un giornalista, e con in mano l’inseparabile pennellino, le scatolette colorate, intenta a colora il suo ultimo acquarello. Presentare Laura Scarpa è molto complesso; mi sembra quantomeno onesto farlo affidandosi alla sua sagoma gioviale e al suo sorriso aperto. Testimone di una fetta importantissima del fumetto italiano e non solo, depositaria e divulgatrice di un’epoca e di un mestiere bellissimo Laura, che vanta tra i suoi maestri e diretti mentori e ispiratori figure indimenticabili del fumetto mondiale, celebra quest’anno i suoi 40 anni di attività. Ha ricoperto una miriade di ruoli diversi nel mondo delle nuvolette: disegna con passione da quando aveva 15 anni, è autrice di fumetti, editor, è stata direttrice della rivista ANIMALs, è presidente dell’associazione Comic Out che promuove e difende il linguaggio del fumetto ed è editrice dello stesso marchio, è anche fondatrice della prima Scuola di fumetto online e dell’omonima rivista. Abbiamo parlato con lei in occasione del lancio del suo ultimo lavoro War Painters (1915-1918) come l’arte salva dalla guerra, in libreria dal 12 aprile.

Festeggi i 40 anni di attività, una vetta ideale per gettare uno sguardo all’indietro. Quali sono stati gli incontri e le ispirazioni senza le quali non sarebbe successo, le pietre miliari del tuo cammino?

Come potrai immaginare in 40 anni sono successe un sacco di cose… senza dubbio il primo slancio cosciente è venuto dalla Ballata del Mare Salato e dall’incontro con Hugo Pratt, che con grande cortesia, vedendo i miei disegni mi dette consigli, incitò e talvolta sgridò. Prima però c’erano anche altri autori splendidi, tra cui principalmente Grazia Nidasio, con Violante e, soprattutto, Valentina Mela Verde, che ho avuto il piacere di pubblicare in volume. E poi… Italo Calvino, fu il mio primo vero fumetto, quello tratto dal suo La nascita degli uccelli, in Ti con zero. Poi Battaglia, direi, e le chiacchiere con Lorenzo Mattotti… e molti altri nel tempo.Ma senza il «Corriere dei Piccoli» degli anni ‘60, che aveva tra i suoi autori i più grandi Maestri del fumetto, non mi sarei appassionata a questo linguaggio. Poi mi rendo conto che ho incontrato tanti altri e tali nomi, che fanno tremare le vene ai polsi, come Alberto Breccia, Toppi, Muñoz e Sampayo, Scozzari, Buzzelli, Loustal, Giardino…tutte persone con cui parlare e ricevere tanto. E anche tanti altri meno “famosi”, ma non di meno importanti per me.

 Nel tuo percorso hai saputo cogliere l’importanza dell’avvento del web creando un blog molto seguito e fondando la prima scuola di fumetto on line, eppure rivendichi spesso il valore della carta, tanto che anche nel tuo blog le illustrazioni sono rigorosamente impaginate dentro alla struttura a spirale del block notes…sono due mondi che nella tua produzione e nella tua professionalità convivono perfettamente. La carta è legata all’estemporaneità, all’attimo e il digitale alla possibilità d’archiviare, forse?

Sono curiosa. La rete mi ha sempre interessato in senso utile. Se la frequenti puoi capirla e usarla al meglio. Lo dico spesso negli incontri con gli aspiranti autori: io ho scoperto molti autori in rete. Uno fu Makkox: fui la prima a pubblicarlo su carta, su «Blue» e, poi, su «ANIMAls». Da lui imparai anche i trucchi e l’utilità della rete e creai il blog. Poiché nasceva dalla carta lasciai il senso estemporaneo della carta, del blocchetto, come elemento stesso del disegno. Sottovalutiamo sempre le cornici e l’impaginazione, ma cornici e impaginazioni sbagliate possono distruggere un’opera… o salvarla. La differenza tra carta e rete non è una sola, sono utilizzi e impatti visivi e di lettura diversi: la rete richiede brevità, sintesi, la carta permette lunghezze. La rete è verticale, la carta orizzontale. La differenza fondamentale tra i due spazi di pubblicazione e comunicazione non è grafica o fisica: è il tempo.

Non solo sei insegnante, ma anche fondatrice di una scuola e nel catalogo di ComicOut la collana “Lezioni di fumetto” è molto ricca. Sono convinta che sappia insegnare chi ha sempre voglia d’imparare (e mettersi in discussione). Sei d’accordo? 

Io credo che ci siano grandi autori senza che abbiano seguito corsi. Se guardi gli autori e i fumetti puoi imparare anche da solo, ma è un processo lungo e complesso, e se non hai con chi confrontarti davvero, diventa difficile e rischioso. Credo nell’insegnamento, nel comunicare, nello scambio. Nell’approfondire quello che si intuisce. Lo studio (anche se non sono stata una brava scolaretta) è importante. Il cervello è importante e ascoltare e guardare gli altri lo è, per guardare in sé stessi. Insegnando poi si impara. Se si smette di imparare vuol dire che qualcosa non sta funzionando. I miei primi anni di insegnamento sono stati folgoranti, estremamente stimolanti, ricchi di input. Col tempo molte cose si ripetono, ma non sono mai uguali e questo mantiene attivo il cervello e la nostra evoluzione… e il piacere della scoperta. Ma è un percorso che non è privo di fatica e delusioni. È bello è avere tantissimi ex-allievi, ora diventati ottimi professionisti o artisti.

Avrai visto molti book di esordienti. Qual è la caratteristica saliente per diventare un buon fumettista?

Saper raccontare, e avere un disegno non sgradevole, non troppo scopiazzato senza nulla, nulla di proprio. Lo stile non si cerca, si trova in sé stessi. Ma fare un fumetto vuol dire raccontare. Anche senza stile. L’altro giorno, con Marco Galli, commentavamo che se il disegno del fumetto, pur essendo artistico, sperimentale o eccellente, non coinvolge, allora manca della prima virtù, quella del comunicare, annoierà il lettore, che se ne fregherà di leggere il racconto (o leggerà solo le parole!!!). Per presentare al meglio un book a un editore, consiglio sempre la buona misura di pagine, non due, ma nemmeno 50. Chiarezza tra i materiali e attenzione a quello che l’editore fa.

Ma, soprattutto, ascoltare bene quello che gli esperti dicono quando si mostrano i propri lavori… sono lezioni preziose e anche quando non ci sembrano “giuste”, sono sacrosante e sempre educative.

 “Disegniamo sempre noi stessi” come scrivi nella quarta di Caffè a colazione e finisci per dirlo anche nel primo racconto di War Painters, mentre ti raffiguri di notte, curva sulla scrivania…Perché?

Perché semplicemente è così, appare evidente in Gipi e Zerocalcare, no? O Pazienza… ma anche quando disegniamo storie di altri personaggi (io addirittura dei soldati del ’15-’18…) un pezzo di noi sta dentro, ci frammentiamo, distribuendo pezzetti del nostro carattere in diversi personaggi. Ma attenzione, se disegnassimo SOLO noi stessi sarebbe, temo, la catastrofe. Sto bene attenta nel mio diario-blog “Caffè a colazione” a mettere immagini, flash, idee che possano uscire da me, essere condivisibili, comprese da altri e da altri vissute e interpretate secondo la loro esperienza. Guai dunque se il “noi stessi” diventa ombelicale. Graficamente la somiglianza sta poi nella “fisica” dei corpi… si disegna secondo il proprio senso fisico… lo so che Corto Maltese era alto e snello e Pratt decisamente no, eppure si assomigliano.

 Il war painter interpreta la sintesi assoluta dell’artista che si interroga sul suo ruolo. Ma anche Laura, conoscendo il suo lavoro, se lo chiede spesso, se non sbaglio.

Certo. Credo che chiunque faccia un lavoro, anche non “artistico”, si ponga questa domanda… anche l’imbianchino si chiede se ha senso riverniciare quel muro. Per quello che riguarda un prodotto creativo, nel nostro caso la prima domanda è se sarà di qualche utilità o piacevolezza per un lettore; successivamente ci si chiede, a volte, se quello che facciamo ha uno scopo o un peso. Riguardo al resto del mondo è raro che l’abbia davvero, ma nel nostro circuito di lettori e autori, magari sì.

La domanda che ci poniamo spesso (non sempre, non sempre abbiamo necessità serie, sociali o politiche) è il valore “civile” di un’opera. Quando può fare danno, o sostenere qualcosa di positivo, avere un valore per qualche lettore, portare un messaggio, o piuttosto, una discussione, instillare un dubbio. Il fumetto e le altre opere d’ingegno non devono fornire verità, ma dovrebbero sempre suscitare dubbi, domande, offrire idee anche balzane e dare complessità, fornire diverse chiavi di lettura del mondo. Ma anche rendere leggeri e allegri, quasi felici. Sarebbe uno scopo bellissimo.

Ecco che per un soldato-pittore che dipinge la guerra, mentre è in guerra, questo senso o scopo dell’opera si pone in modo evidente. Oscilla tra la totale inutilità del gesto pittorico rispetto a quello di sparare, e per contro il senso assoluto e salvifico che può avere la pittura o altro, contro un dramma gigantesco come la guerra.

Il racconto tocca anche il contrasto tra disegno e fotografia in relazione con la raffigurazione della realtà, un contrasto molto visibile in questo contesto bellico, che si riallaccia alla postfazione di Lucchi. Il disegno dovrebbe avere sempre questa duplice funzione documentaria e psicologica? Quale sei solita prediligere?

È un aspetto interessante, soprattutto in quegli anni, che sono quelli dell’avvento della fotografia “tascabile”, su pellicola. Le foto diventano “istantanee” e la Kodak pubblicizza le macchinette da portarsi al fronte per avere ricordi, affiancandosi all’immagine dei ritratti da studio dei soldati (da mandare a casa) e delle foto tecniche di guerra, con paesaggi e postazioni. Perché, dunque, usare ancora la pittura quando la tecnica fotografica inizia proprio allora ad essere alla portata di tutti? Non farò un saggio sui due linguaggi… lancio solo il sassolino.

 Alle consuete tecniche, china, acquarelli, aggiungi in questi racconti una tecnica vistosamente pittorica e a palette che definirei “liberata”. È un modo per strizzare l’occhio al grande fermento nelle arti visive e plastiche di inizio secolo?

Uso pennelli, penna a biro e colori ad acqua di vario tipo (e una volta pastelli) e mescolo le tecniche. Quando però passo al digitale, che normalmente uso come ritocco o colorazione, il rapporto cambia. Non amo, con la penna ottica, lavorare di fino sul segno, meno sensibile che su carta, e non amo i lavori puliti, netti. Amo sfruttare del digitale le potenzialità affini alla tempera, o all’acrilico, che su carta non mi posso permettere per questioni di spazio e tempo.

Uso una semplice tavoletta Bamboo, non Cintiq o raffinate apparecchiature, e dunque anche per questo, e per la mia esperienza limitata, non amo tracciare le linee come immagine portante. Trovo interessante l’elaborazione a masse, a pennellate, perché mi piace dal punto di vista narrativo. Questa tecnica, unita ai costumi e ai colori d’epoca, si collega poi chiaramente alla pittura di quegli anni, un periodo di grande vivacità nell’arte visiva. All’inizio della seconda storia cito e metto in collegamento la più tradizionale Anna Coleman e un Picasso in piena ricerca cubista.

Credi che sia ancora possibile considerare l’arte e la pratica artistica come un modo di lenire le sofferenze psicologiche, anche quelle terribili che derivano dai conflitti bellici?

Credo proprio di sì, come dimostrano le foto di maschere che ho pubblicato in appendice, maschere di terapia per soldati sconvolti dall’esperienza in Iraq. Da parte mia non ho certezze, né le do. Quella che pongo è una domanda. E se, da una parte, c’è una componente salvifica nell’arte e nell’umanità che la usa, dall’altra direi che rimane una cosciente amarezza, quella dei Don Chisciotte che combattono e ne escono sconfitti. Vorrei che la risposta la desse ogni lettore, a modo suo.

il libro si chiude con tre approfondimenti molto interessanti: il primo sui Kriegsmahler, i pittori di guerra, a cura di Maurizio Lucchi; uno su Anne Coleman Ladd, la scultrice che ricostruì i volti di molti soldati sopravvissuti ma sfigurati e l’ultimo, dedicato alle canzoni di guerra, importanti documenti musicali delle vicende belliche. Fare un fumetto è per te mettersi in contatto con altre arti?

Fare un fumetto è mettersi in contatto con il “fuori” da noi. Se ho detto che disegniamo sempre noi stessi, è però fondamentale non chiudersi in sé stessi. L’arte nasce dall’incontro, dal guardare fuori e rapportarsi con l’esterno, cambiando per primi noi stessi.

Le arti diverse sono parte di questo mondo esterno, e il fumetto è già, in qualche maniera, un ibrido, un linguaggio che nasce da fusioni e unioni, che può succhiare molto alla vita e a tecniche e linguaggi differenti, sviluppandosi e crescendo… Credo sia ancora adolescente.