Esiste una dispettosa e beffarda coincidenza fra la morte di Gino Strada e la caduta di Kabul, come se una parte di mondo stesse scivolando via sotto il disinteresse dell’Occidente, quel pezzo di mondo a cui proprio Gino aveva pensato parlando dei vaccini anti-Covid.

Resterà indimenticabile, per molti di noi, quella sua frase pronunciata a Maggio per il quotidiano cattolico l’Avvenire: “Oggi il mondo benestante vaccina una persona al secondo per Covid. Allo stesso ritmo, nel continente africano si muore”. E da questo discorso non fa eccezione l’Afghanistan, che, oltre alla drammatica situazione del regime dei talebani, vede affiancarsi il timore di una pandemia fuori controllo, che passa sotto silenzio nei giornali del mondo, come se quel microscopico virus fosse intimorito dall’emirato talebano. Ovviamente non è così, i contagi crescono e solo lo 0.5 % (dati ancora incerti) della popolazione afghana risulta vaccinata. Un nulla.

Si muore da quelle parti: si muore per gli spari, si muore per la siccità più forte degli ultimi trent’anni che rende precarie anche le condizioni igieniche, si muore per il cibo che scarseggia nella periferia di Herat e di Kabul. Si muore mentre, per citare ancora Strada, “in Europa c’è anche chi si permette di rinunciare alla propria dose vaccinale, ipotizzando assurde controindicazioni da vaccino anti-Covid (senza neanche una minima competenza medica)”.

Non sono parole facili da dimenticare e torna alle mente la battuta amara e vera del lungimirante fondatore di Emergency, quando fu costruito il Centro di Maternità di Anabah, nella Valle del Panshir: “Si nasce in Afghanistan, non si muore soltanto come forse pensate in una parte di Occidente. Si nasce e soprattutto le donne hanno bisogno di aiuto nel parto, in un posto dove, fino a poco tempo fa, non si conosceva neanche il sollievo e l’aiuto di un parto cesareo e molti neonati morivano insieme alle loro mamme”.

Pensava a quell’Afghanistan Strada nel suo ultimo articolo, pensava in questi termini a quella zona in cui il resto del mondo dimentica che, oltre alle dittature o alle finte democrazie, esiste anche il diritto alla nascita, alla cura, alle medicine, ai vaccini.

Raffaella Baiocchi, di Emergency, ha dichiarato: “In 12 anni ho visto nascere migliaia di bambini, ma soprattutto ho visto nascere e crescere tante donne: le nostre ostetriche, le nostre infermiere, le nostre giovani dottoresse.
Donne che hanno studiato, lavorato e lottato contro tanti pregiudizi e talvolta anche minacce, per costruirsi una professione che esercitano con passione, intelligenza e soprattutto empatia. Il Centro di maternità di Anabah è un mondo dove le donne si salvano a vicenda”. E’ esattamente questa la salvezza auspicabile in queste ore per l’Afghanistan: l’idea che esistano medici, come quelli di Emergency, che non vanno via, che restano insieme a molte persone in una Kabul dove (naturalmente) si scappa.

Quei medici restano, anche perché non possono far finta di non vedere che lì si continua a nascere, si continua ad aver bisogno di latte per neonati, si continua ad avere la necessità di spazi per la quarantena dei contagiati e di ossigeno per i casi più gravi. Già a giugno scorso i volontari facevano sapere che la situazione pandemica era gravemente sottostimata in Afghanistan.

Secondo le raccomandazioni dell’Oms, valori troppo bassi, con scarsissimi vaccini, dimostrano che i funzionari non stanno testando abbastanza ampiamente, consentendo al virus di diffondersi senza controllo. “L’Afghanistan effettua appena 4.000 test, più o meno, al giorno e spesso molto meno. Anche il numero di infezioni, in sole 24 ore, ha continuato a salire ”, così Gino Strada nel maggio scorso. E infatti, guardando i report comparativi, si nota che dai 1.500 casi alla fine di maggio, quando il ministero della salute stava già definendo l’aumento “una grave crisi per gli ospedali di Kabul”, si passa a oltre 2.300 a fine giugno.

Dall’inizio della pandemia, l’Afghanistan riporta 4 -5 mila morti, ma queste cifre sono probabilmente un enorme dato falso, soprattutto perché non si tiene conto della gente che muore in casa né si tiene conto di come i talebani, ora, abbiamo completamente oscurato la questione del coronavirus, senza che neanche la stampa solleciti la questione al resto del mondo.

L’era dei grandi sconvolgimenti afghani insieme alla caduta del controllo occidentale, si mescola alla sola speranza che a Kabul, e non solo, si continua a nascere e che ci sono giovani medici che non vanno via, proprio come Gino avrebbe detto loro di fare. Citando la poesia di Basir Ahang, si può dire che i professionisti di Emergency sanno perfettamente che questo momento ci appartiene, da Kabul a Roma.