C’è una dottrina Obama? C’è, ed è il rovesciamento del «copione che a Washington si presume i presidenti debbano seguire». E «il copione prescrive risposte a eventi diversi, e queste risposte tendono a essere risposte di tipo militare». È un copione che può portare a «bad decisions». E a errori. Come in Libia. Che «ora è nel caos». Perché fu «un errore» il sostegno dato dalla Casa Bianca all’intervento militare della Nato nel 2011, uno sbaglio gravido di conseguenze nefaste. Sono le parole di Barack Obama.

«The Obama Doctrine» è il titolo di un lungo colloquio a tutto campo con Jeffrey Goldberg, il giornalista di The Atlantic che ha una relazione personale con il primo presidente africano americano.

E da tempo ne raccoglie i punti di vista, senza i veli dell’ufficialità, sui temi più delicati della politica internazionale. È un titolo semplice, quello dato all’intervista, ma pregnante. Perché a Obama è stato spesso, da più parti, rimproverato di non avere una visione organica del ruolo degli Stati Uniti nel mondo, una dottrina, appunto. La sua riluttanza, peraltro più volte illustrata e spiegata, a usare la forza militare non come estrema risorsa ma come mezzo principale è stata vista dall’establishment washingtoniano, dagli alleati europei e mediorientali (e dalle macchiette di certi nostri commentatori che fanno da cassa di risonanza) come incertezza e debolezza di leadership, inadeguatezza di pensiero strategico, e dunque assenza di dottrina.

L’attacco alla Libia fu dunque «un errore». Non fu un errore, invece, la rinuncia all’intervento in Siria dopo che sembrava tutto predisposto per porlo in atto. Parla chiaro Obama, anche quando rammenta che c’era chi, nella sua stessa amministrazione, aveva un’idea opposta. I falchi, non cercateli però al Pentagono, ma al Dipartimento di stato, dove Hillary Clinton predicava l’uso della forza, in sintonia con leader come Sarkozy e Cameron (che Obama non esita a definire free riders, scrocconi, che – nel caso libico – si pavoneggiavano degli obiettivi colpiti… dalla forza aerea statunitense).

Napolitano non è chiamato in causa, ma l’Italia allora si unì alla logica interventista. Retrospettivamente, data anche la vantata relazione personale con Obama, bene avrebbe fatto a offrire una sponda al presidente statunitense, e cercare di scongiurare il disastro alle porte di casa.

Di questa intervista si discuterà molto e a lungo. Per i temi affrontati, dall’Ucraina alla Cina, dall’Arabia Saudita all’Iran. Per l’inusitata franchezza e durezza. Ma intanto colpisce la tempistica. Non è un’iniziativa che dà man forte a Hillary, confermata nel suo ruolo di falco. Lei, la responsabile del drammatico pasticcio di Bengasi, mai veramente chiarito e destinato a tornare in primo piano nel confronto diretto con il suo rivale repubblicano. Ma Clinton non gode del sostegno di Obama, anche se non ancora dichiarato ufficialmente? Già, ma probabilmente Obama pretende che chi si candida a succedergli dica parole chiare di continuità nella politica internazionale, per poter avere il suo endorsement esplicito. Troppo spesso Clinton lascia capire che volterebbe decisamente pagina.

E a proposito di Libia, è ovvio che le parole del presidente statunitense sono un chiaro monito nei confronti di chi di nuovo si eccita all’idea di fare il bis dell’intervento del 2011. Un’idea che, a maggior ragione, dopo questa intervista, è pura follia.