Nella notte tra il 24 e il 25 di aprile del 1974 un contingente militare comincia la sua marcia verso Lisbona, obiettivo: abbattere la più longeva delle dittature d’ispirazione fascista d’Europa, democratizzare il paese e chiudere la guerra coloniale. Già, sono stati i militari e non una rivoluzione di popolo a mettere fine all’Estado Novo, ma dopotutto come avrebbe potuto essere altrimenti? E poi quello che conta davvero sono gli ideali che hanno mosso i capitani d’aprile a muovere contro Marcelo Caetano che, dal 1968, aveva sostituito António Oliveira Salazar alla Presidencia do Conselho de Ministros.

Sullo sfondo di tutto la guerra coloniale che dal 1961 assorbiva ogni risorsa di uomini e soldi. Sì perché anche l’impero portoghese – Goa, Mozambico, Angola, Guinea-Bissau e Capo Verde – era stato sconvolto dagli ideali di emancipazione che avevano pervaso il mondo nel dopoguerra.

800 mila si stima siano stati i giovani, in un paese di circa 9 milioni di abitanti, che, per circa tre anni della loro vita, hanno dovuto combattere per difendere quello che, fin dagli inizi, appariva ai più come indifendibile: il colonialismo europeo. E infatti all’inizio degli anni ’60, sempre i militari, questa volta le alte gerarchie guidate dal generale Botelho Moniz, tentano un colpo di mano per allontanare Salazar, il più convinto dei sostenitori dello status quo. Il dittatore resiste, epura l’esercito e procede a tappe forzate con la mobilitazione.

È stata una guerra terribile, dispersa in territori vastissimi, violenta come solo la guerriglia può esserlo. Solo tra i portoghesi sono stati circa 5700 i morti, una cifra che, proporzionalmente, è superiore a quella degli americani caduti in Vietnam.

In quei lunghi anni ’60 l’economia lusitana cresceva ma, paradossalmente, le persone emigravano in massa: quasi un milione di persone. Il Pil è beffardo, non misura il benessere, ma è una somma asettica di tanti fattori, e se la guerra fa cassa, anche il Pil cresce. Questo anche se non ci sono diritti, non ci sono ospedali, non c’è nulla perché tutto dev’essere sacrificato in nome dell’integrità territoriale che prevede, inevitabilmente, anche le provincie d’oltremare.

Nonostante tutto il governo si guarda bene dall’avviare negoziati di pace e anzi, rilancia continuamente come uno scommettitore incallito conscio di non potere vincere. «La situazione militare è sotto controllo» dicono a Lisbona, dall’Africa risponde Amilcar Cabral ricordando che all’inizio dei ’70 i colonizzatori controllavano esclusivamente i centri urbani.

La rivoluzione l’hanno fatta i militari dicevamo, e non poteva essere che così, perché nel paese e nelle colonie tutto era minuziosamente controllato dalla polizia politica, la famigerata Pide, Polícia Internacional e de Defesa do Estado. Non c’era foglia che si muovesse senza che i funzionari dei servizi non ne fossero a conoscenza, grazie anche a una rete di informatori, normali e premurosi cittadini, che non mancavano di denunciare vicini e amici.

La repressione era minuziosissima, le prigioni politiche piene di lavoratori e giovani universitari che, soprattutto a partire dalla fine degli anni sessanta, contestano frontalmente il regime e la guerra coloniale. Non era facile opporsi. Alvaro Cunhal, il leggendario segretario geral del Partido Comunista Portugues, è incarcerato per 15 anni, ma insieme a lui tantissime persone, chi per una settimana, chi per qualche mese e altri per diversi anni.

È la rivoluzione prima della rivoluzione, come recita il titolo di un bellissimo libro di Guya Acconero recentemente pubblicato (The Revolution before the Revolution, Late Authoritarianism and Student Protest in Portugal – Bergen). Sì perché se non ci fosse stato un ambiente favorevole a un certo tipo di democratizzazione, il 25 de Abril, non sarebbe stato lo stesso. All’inizio degli anni settanta l’Estado Novo era ormai logoro ed è probabile che, comunque, presto o tardi, si sarebbe aperto un processo di transizione democratica. Ma se non ci fosse stato il lungo ciclo di protesta iniziato nel 1969, il Movimento das Forças Armadas non sarebbe stato lo stesso. Quello che si celebra con il 25 di aprile non è solo la fine della dittatura, ma anche la costruzione di una democrazia che si voleva sostanziale.