«Questa è un’escalation tra gli Stati Uniti, un alleato, e l’Iran, un vicino, che ci piacciano o no (gli iraniani) sono i nostri vicini…l’ultima cosa che vogliamo è un’escalation». Con queste poche frasi Suhail Al Mazrouei, ministro dell’energia e dell’industria degli Emirati, ieri ha riassunto la posizione degli alleati arabi degli Usa nel Golfo qualche ora dopo il lancio di 22 missili iraniani contro due basi americane in Iraq. Posizione condivisa nella sostanza da Riyadh. Per anni l’Arabia saudita, gli Emirati, il Bahrain e altre monarchie sunnite, assieme a Israele, hanno fatto di tutto per impedire la firma del Jcpoa (l’accordo internazionale sul programma iraniano di produzione di energia nucleare), hanno invocato il pugno di ferro di Washington e azioni militari punitive contro Tehran. E ora che Donald Trump ha fatto assassinare il generale iraniano Qassem Soleimani, architetto delle ramificazioni dei Pasdaran nella regione, e la guerra all’Iran la Casa Bianca è pronta a scatenarla, le petromonarchie esitano e invitano le due parti ad allentare la tensione.

 

«I paesi arabi del Golfo sono con Trump e dietro le quinte hanno gioito per l’eliminazione di Soleimani. Allo stesso tempo sanno che se ci sarà una guerra gli Usa non potranno prevenire la reazione dell’Iran e a pagarne le conseguenze più immediate saranno proprio loro, che ospitano basi e strutture militari americane. Un solo proiettile sparato contro Dubai si rivelerà un macigno scagliato contro l’economia del Golfo», spiega al manifesto l’analista Mouin Rabbani. Ad aprire di recente gli occhi dei monarchi arabi, aggiunge Rabbani, sulle potenzialità belliche dell’Iran è stato l’attacco chirurgico condotto con droni e missili –  attribuito a Tehran ma ufficialmente rivendicato dai ribelli yemeniti Houthi – compiuto lo scorso settembre contro alcuni impianti petroliferi sauditi che ha bloccato temporaneamente la produzione di 5,7 milioni di barili al giorno. Attacco non intercettato dalle difese antimissile installate da Washington nel paese. E così è andata anche l’altra notte quando l’Iran ha colpito con i suoi missili le due basi americane in Iraq. Gli alleati arabi di Trump sanno che l’Iran è in grado di bloccare lo Stretto di Hormuz e di paralizzare un quarto delle esportazioni mondiali di greggio facendo salire in un colpo solo il prezzo del barile di petrolio a 100 dollari. «Questa regione ha avuto la sua giusta quota di disordini e guerre e ciò che oggi è fortemente richiesto è la pace…Il mondo conta sulla fornitura di energia non solo ora ma anche in futuro», auspicava ieri il segretario generale dell’Opec Mohammed Barkindo.

 

Gli effetti di una possibile guerra sono già evidenti per l’economia regionale. La forte tensione di questi ultimi giorni ha fatto precipitare verso il punto più basso le quotazioni della Aramco messa sul mercato a dicembre tra le fanfare dalla famiglia reale saudita. Le cause del calo (12% in meno di un mese) in verità sono varie ma senza dubbio pesa il timore degli investitori per le sorti di un gigante petrolifero che rischia di finire sotto attacco missilistico. Nell’immediato il pericolo di una guerra potrebbe mandare in fumo il successo della finale della Supercoppa di calcio spagnola prevista domenica in Arabia saudita (che ha appena ospitato quella italiana). I tifosi spagnoli appaiono poco inclini a volare verso il Golfo con l’aria che tira. Un colpo per Riyadh che punta a farsi assegnare le finali dei Mondiali del 2030 così da rispondere al rivale Qatar che li ospiterà tra due anni.