Nel complesso scenario geopolitico che inquadra la crisi siriana, alcuni attori scalpitano, pronti ad affidare alle armi la parola decisiva, altri preparano futuri scenari più consoni all’ipotesi del «grande Medioriente» immaginato da Bush: all’occorrenza la Turchia, l’Arabia saudita e i paesi del Golfo, come il Qatar, delusi dalla piega diplomatica presa dagli eventi. All’occorrenza Israele, preoccupato per le conseguenze indirette della crisi siriana sul suo territorio e per l’influenza iraniana. La Turchia, paese membro della Nato, era pronta a mettere a disposizione di un attacco nordamericano o francese le sue basi militari e gli aeroporti. Fin’ora, però, Ankara – che sostiene e foraggia l’opposizione armata a Bashar al Assad dalla metà del 2011 e ospita nei campi circa 200.000 rifugiati oltre ai 300.000 già stabilmente presenti sul suo territorio – non ha potuto realizzare alcuna sua mira: né una no fly zone, né l’aiuto militare esplicito ai ribelli, né la dipartita di Assad e la sostituzione di un governo egemonizzato da un islamismo modello Fratellanza. Anzi ha dovuto ingoiare l’insediamento di un’istanza autonoma kurda a nord della Siria. E la maggioranza dei kurdi siriani si dichiara a difendere con le armi quanto ha ottenuto, in caso di aggressione militare esterna ad Assad. Il premier Erdogan non ha neanche visto crescere il suo prestigio, dovendo anzi registrare l’aumento continuo dell’opposizione alla guerra nel suo paese e la rinnovata presenza di una forte contestazione di piazza. E i 900 km di frontiera turco-siriana restano incandescenti.
Ankara ha annunciato di aver abbattuto un elicottero siriano entrato nel suo spazio aereo, dopo aver avvertito «ripetutamente» il pilota. Nel 2012, l’esercito siriano aveva abbattuto un aereo turco, e l’episodio aveva fatto crescere la tensione tra i due paesi. Ieri, il ministro degli esteri turco Ahmet Davutoglu ha detto di non attendersi una risposta di Damasco, lasciando intendere che l’abbattimento dell’elicottero fosse una risposta dovuta all’episodio del 2012. La zona in cui è stato abbattuto il velivolo siriano è controllata dai miliziani jihadisti del Fronte al Nusra, affiliato ad al Qaeda. Secondo Damasco, il suo elicottero non era in assetto da combattimento e stava «monitorando attività terroristiche» lungo il confine, quando è entrato «per errore» nello spazio aereo turco. Un altro pilota sarebbe prigioniero dei ribelli. E nei pressi del valico di Bab al Hawa, nel settore occidentale della frontiera tra i due paesi, controllato dai ribelli siriani, ieri è esplosa un’altra autobomba causando 8 morti. Ne hanno dato notizia fonti dell’Esercito libero, una delle componenti la galassia armata contro Assad.
La questione delle armi chimiche in ballo nella crisi siriana, ha riportato sul tavolo quella del nucleare iraniano, che sarà oggetto di un incontro tra il presidente Usa Barack Obama e il primo ministro israeliano, Benyamin Netanyahu, il 30 settembre. «Andrò all’Assemblea generale dell’Onu e prima incontrerò il presidente Obama, intendo impegnarmi per fermare il programma nucleare iraniano. Fermarlo veramente», ha annunciato Netanyahu in consiglio dei ministri. Per l’incontro, che avrà luogo a Washington, il premier israeliano ha fissato quattro punti: fermare ogni arricchimento dell’uranio; rimuovere tutto l’uranio arricchito; chiudere l’impianto nucleare di Qom; fermare l’arricchimento del plutonio. Per questo, Netanyahu ritiene che occorra «intensificare la pressione sull’Iran, non ridurla, fintanto che i quattro obiettivi non saranno raggiunti». Quanto è accaduto con la Siria – ha detto – è servito a confermare «gli assunti in base ai quali operiamo: uno stato canaglia che sviluppa armi di distruzione di massa può usarle… Solo una credibile minaccia militare può permettere alla diplomazia di fermare gli armamenti».
E se il nucleare dell’Iran sarà al centro della prossima sessione dell’Assemblea generale dell’Onu, per le armi chimiche in possesso di Israele ci sarà ancora da aspettare. «Siamo contrari alle armi nucleari, non perché ce l’abbiano chiesto gli Usa o altri paesi, ma per nostra convinzione», ha dichiarato in risposta l’ayatollah Ali Khamenei. In merito alla lettera «di congratulazioni» inviata da Obama al suo omologo iraniano Hassan Rohani, Tehran ha espresso la speranza che la politica estera Usa «diventi più realistica».