La scorsa settimana è stato chiuso l’accesso a Twitter, l’altro giorno quello a Youtube. Il potere di un primo ministro contro quello sfuggente della rete: la guerra asimmetrica in atto tra Recep Tayyip Erdogan e i social network spinge il titolo sulla punta delle dita, se non già in pagina.

Ma il vero senso di questa tenzone non riguarda il fastidio – che comunque c’è – di Erdogan verso il web. Piuttosto, va inquadrato nel contesto del voto amministrativo di domani e nel braccio di ferro in corso tra lo stesso Erdogan e l’imam Fetullah Gulen, uomo tanto silenzioso e schivo quanto influente. L’organizzazione civile-religiosa che ha fondato, Hizmet, infila i tentacoli nella finanza, nei media, nella magistratura, nell’istruzione.

Ma chiariamo meglio il quadro. La Turchia s’appresta a rinnovare sindaci e consigli comunali in molte città, comprese Istanbul e la capitale Ankara. Il voto è non soltanto il primo banco di prova elettorale dalla rivolta di Gezi Park, ma darà anche modo di capire se l’Akp, il partito di Erdogan, è riuscito a contenere il grosso scandalo della corruzione, scoppiatogli sotto i piedi nei mesi scorsi.

A pilotarlo, lo sostiene Erdogan ma lo pensano praticamente tutti, è stato Gulen, facendo leva sull’influenza che Hizmet ha nella magistratura. Gulen ha aiutato Erdogan a scalare il potere mettendogli a disposizione la dote di voti che Hizmet porta con sé, ma in tempi recenti i due hanno iniziato a non sopportarsi più. Erdogan non accetta i contrappesi di Gulen; Gulen, che vive in America da anni, denuncia la deriva autoritaria di Erdogan.

I togati vicini al capo di Hizmet – questa la ricostruzione più gettonata – hanno messo in piedi un’indagine che ha svelato in area Akp un intreccio di appalti truccati, favori, protezioni e soldi riciclati. Ne è stato lambito anche Bilal Erdogan, uno dei figli del primo ministro.

Questo accadeva a dicembre. Da lì è iniziata una battaglia senza esclusione di colpi. Erdogan ha declassato magistrati e poliziotti inquirenti vicini a Hizmet. Mente Gulen avrebbe fatto uscire dalle procure audio e fascicoli scomodi su soldi da nascondere e accordi sottobanco (nulla comunque di ufficialmente accertato), che entrano nel perimetro del cerchio magico di Erdogan e che sono stati puntualmente piazzati sulla rete. Da qui la museruola a Twitter e Youtube. Proprio alla vigilia della tornata amministrativa. Erdogan vuole mettere la sordina a tutte queste faccende, cercando di non farle interferire troppo con le urne.

Ma che aria tira tra gli elettori? È abbastanza scontato che l’Akp si confermerà ancora primo partito del paese. Ma il problema non è questo. Il problema è il quanto. Il bottino di voti, in altre parole. Gli analisti ritengono che lo sfondamento della soglia del 40% verrebbe interpretato da Erdogan come il via libera a correre alle presidenziali di agosto. Lo snodo è cruciale. Sono le prime presidenziali a voto diretto nella storia del paese. Se Erdogan dovesse presentarsi e vincere, la poltrona del capo dello stato diverrebbe, da carica abbastanza notarile, il perno del sistema istituzionale. Erdogan forzerebbe al massimo il dettato costituzionale. Potrebbe persino cambiarlo, si dice, in modo tale da squadernare una svolta gollista.

Tutta un’altra storia, però, se l’Akp dovesse restare sotto il 40%. Significherebbe che il pasticcio della corruzione, tutto ancora da provare, a ogni modo, ha prodotto vistose crepe nello scafo. Oltre a questo, nel partito potrebbe emergere una corrente orientata al ricambio e a mettere paletti all’esuberanza del primo ministro.

Erdogan sente molto il voto. Ci sta mettendo quanta più grinta possibile. In questi giorni ha girato il paese in lungo e in largo, tenendo decine di comizi. Sa che ci potrebbero essere delle preferenze in uscita e cerca di rivolgersi allo zoccolo più fedele del suo elettorato. Ai ceti meno abbienti, alla provincia anatolica. Meglio tenersi questi voti che cercare di corteggiare in extremis quei pezzi di borghesia urbana propensi a non dare più fiducia all’Akp. Questo il ragionamento di Erdogan, che ha condotto una campagna votata alla polarizzazione. Dunque: parole al vetriolo contro il potere occulto di Gulen, attacco frontale al web, purghe senza complimenti nella magistratura. A questo s’aggiunge un tono sempre più muscolare sulla Siria. D’altro canto la retorica del nemico esterno può sempre giovare. L’altro giorno i caccia di Ankara hanno abbattuto un aereo siriano.

Erdogan dovrà però fare i conti con un’altra incognita. Non troppo visibile, ma non meno insidiosa. È l’economia. Dopo la crescita sostenuta vissuta dal paese da quando l’Akp è salito al potere, nel 2002, Ankara ha iniziato dal 2012 a rallentare. Gli ultimi mesi sono stati poi un mezzo inferno. Come ogni paese emergente, anche la Turchia ha subito l’impatto del progressivo taglio degli stimoli della Fed all’economia americana. La lira turca ha perso molto valore e la banca centrale ha dovuto manovrare con vigore i tassi allo scopo di tenerla su. Si teme inoltre una possibile fuga di capitali esteri, uno dei pilastri della crescita. C’è anche il grattacapo delle partite correnti. Il surriscaldamento economico degli anni passati ha dilatato il volume delle importazioni. Lo squilibro tra quello che la Turchia importa e quello che esporta è ormai pari al 7-8% del Pil, che nel 2014 potrebbe addirittura lambire lo zero.

Volendo tagliare corto, il boom economico è stato uno degli elementi trainanti del consenso dell’Akp. Lo sboom potrebbe ridurlo.