È la strategia del caos quella che Trump e il suo sodale Bibi Netanyahu hanno riservato alla Palestina e a tutto il Medioriente. Niente di nuovo ma sempre tutto tragico per un popolo che attende da 70 anni una soluzione giusta alla sottrazione di terra e dignità patita con la nascita dello Stato israeliano: prima lo spostamento delle ambasciate da Tel Aviv a Gerusalemme – nonostante la marcia indietro di alcuni paesi e il no di altri, la natura aggressiva dell’azione è pesantissima –; poi il taglio di 200 milioni di dollari in aiuti destinati a Gaza e Cisgiordania; e ancora, la legge sullo Stato-nazione che definisce Israele come la patria storica del popolo ebraico, incoraggia la creazione di comunità riservate agli ebrei, declassa l’arabo da lingua ufficiale a lingua a statuto speciale («La legge mette fine alla farsa di uno stato israeliano “ebraico e democratico”, una combinazione che non è mai esistita e non sarebbe mai potuta esistere per l’intrinseca contraddizione tra questi due valori, impossibili da conciliare se non con l’inganno», scrive Gideon Levy).

E SE NON BASTASSE ecco arrivare il taglio drastico di oltre 300 milioni di dollari garantiti sino al 2017 dagli Stati uniti all’Unrwa, l’agenzia Onu che fornisce ai profughi palestinesi servizi basilari come istruzione e sanità. Scelta quest’ultima che affonda tragicamente il diritto al ritorno dei non ebrei, dei palestinesi nati in quelle terre, un siluro al cuore della questione palestinese e punta più alta del programma neocoloniale del sionismo.

L’Unrwa – agenzia ad hoc per i profughi palestinesi voluta nel 1949 dagli Usa che preferirono non coinvolgere la già esistente Agenzia dei profughi che aveva gestito la diaspora degli ebrei ricollocandoli nelle case dai quali erano stati cacciati dai nazisti – sarebbe niente altro, secondo le autorità israeliane, che «un’agenzia Onu che aiuta a perpetuare il conflitto israelo-palestinese, mantenendo viva l’idea che i rifugiati palestinesi abbiano un diritto al ritorno». Il ministro dell’Intelligence, Israel Katz, è arrivato a lodare su Twitter l’iniziativa di «fermare tutti i finanziamenti all’Unrwa».

E LA VITA DEI PROFUGHI? Siamo sempre allo stesso slogan sionista, «vi schiacceremo come mosche»? Era questo il monito che Ariel Sharon, allora ministro della Difesa israeliano, in piena occupazione del Libano, riservò nell’orribile settembre del 1982 ai poverissimi abitanti dei campi profughi di Sabra e Chatila, disposti (tutt’oggi) nella periferia sud della capitale, trucidati barbaramente – volti sfregiati, bambini colpiti a morte, le pance delle donne incinte squartate – mentre Yasser Arafat e i feddayn salpavano dal porto della città diretti verso Tunisi dove avrebbero stabilito il loro quartiere generale, secondo gli accordi.

Un’imboscata vigliacca, un eccidio barbaro che anche quest’anno, come ogni anno da 18 anni, verrà ricordato nela settimana dal 15 al 23 settembre dal Comitato per non dimenticare Sabra e Chatila: 70 persone provenienti da diversi paesi, oltre 37 dall’Italia.

DAL SETTEMBRE del 2000 e dall’incontro felice di Stefano Chiarini, allora esperto di Medioriente per il manifesto, con esponenti delle ong palestinesi in Libano e con alcuni militanti e intellettuali libanesi e palestinesi, sono diventate un solido appuntamento di solidarietà, informazione e denuncia – anche grazie alla passione del compianto Maurizio Musolino – le giornate di solidarietà con gli oltre 500mila profughi palestinesi che, nei loro poveri campi in Libano, ospitano i rifugiati di altre guerre.

Maurizio Musolino (a sinistra) scomparso nel 2016, a Beirut alla guida del Comitato fondato da Stefano Chiarini

 

PARADIGMA TRAGICO, diremmo grottesco, di un popolo dimenticato che si ostina, contro forze potenti, a vivere e rivendicare la propria appartenenza nazionale. Inascoltati, dimenticati, sempre scacciati. Anche dalla toponomastica: nella capitale d’Italia, come in altre nostre città, non si riesce ad ottenere una via importante in onore di Yasser Arafat.

Per capire la questione palestinese, le aggressioni contro la gente di Gaza, la repressione in Cisgiordania, la crudeltà delle detenzioni di massa (6.500 palestinesi sono rinchiusi illegalmente nelle carceri israeliane, tra cui 62 donne e 300 minori, oltre a 13 deputati) è davvero importante andare in Libano e conoscere la realtà di quel pezzo di umanità scacciata dalle proprie case nel 1947 e poi venti anni dopo.

Uomini e donne che non possono tornare indietro e non possono guardare al futuro perché non hanno patria, cittadini di serie b in un paese ospitante. Gente che non vuole essere schiacciata e che va sostenuta sempre.

IL COMITATO per non dimenticare Sabra e Chatila si reca lì ogni anno in occasione dell’anniversario del massacro che colpì le genti dei due poverissimi campi profughi alla periferia di Beirut. Un orrore che si consumò dal 16 al 18 settembre 1982 e che svegliò l’umanità dormiente: i palestinesi ancora massacrati!

Anche la sinistra italiana, affascinata dal mito dei kibbutz e l’esperienza «socialisteggiante» del neo-Stato di Israele, dovette guardare in faccia la realtà dell’occupazione militare e dei suoi crimini. Sinora nessuno ha pagato, nessuno ha chiesto perdono al popolo palestinese e alle vittime dell’eccidio (3.500 uccisi dai falangisti libanesi, sotto la protezione dell’esercito israeliano, ndr).

La nostra presenza in Libano è finalizzata anche a denunciare questo trattamento intollerabile e razzista.