I nomi per le commissioni il Pd riesce a farli. Ma sono le uniche certezze per un partito che ha consumato un altro week end in duelli interni all’arma bianca. Ieri Maurizio Martina è volato in Spagna, a Madrid, per incontrare Pedro Sanchez, il fascinoso segretario del Psoe e nuovo premier dopo il rovinoso ritiro del popolare Mariano Rajoy. Foto-opportunity (utile solo per il segretario italiano) e dichiarazioni di stima.

MA A ROMA, AL NAZARENO, i guai che lo aspettano sono parecchi. Le polemiche sulla nuova segreteria si sono trascinate fino a ieri. L’area Emiliano si è ritirata. Ma anche Nicola Zingaretti si è pentito dell’eccesso di fiducia mostrato nei confronti del nuovo (si fa per dire) corso dem di Martina ed è tornato a lanciare un avviso: o il congresso inizia subito o del Pd «non resterà più niente». Toni apocalittici che non corrispondono però a iniziative dello stesso tenore. Nel frattempo si scalda a bordo campo Stefano Bonaccini, il presidente dell’Emilia Romagna – renziano dopo essere stato bersaniano, come tutti in quella regione – che da mesi scalpita per fare un passo verso la politica nazionale.

MA LA SITUAZIONE INTERNA, anche alle correnti, si ingarbuglia. Nel week end Andrea Orlando si è impegnato in singolar tenzone con Carlo Calenda, accusandolo di polemizzare chiedendo agli altri di non farlo. Alla fine Calenda si è offeso ed ha promesso di non occuparsi più del partito.

A sua volta invece l’ex ministro non ha escluso di candidarsi a congresso. «Credo che se ci saranno delle candidature capaci di incarnare bene la necessità di svolta radicale che abbiamo andranno sostenute. Altrimenti ognuno di noi si deve interrogare». Con ogni probabilità si rratta di un gesto tattico per dare modo a Zingaretti di allargare il suo «campo». Ma a colpi di tatticismi il Pd rischia di risultare, a chi ha la costanza di interessarsi alle sue vicende, una galassia nebbiosa e turbolenta.

I SUOI GRUPPI PARLAMENTARI invece sono riusciti a ricondurre la maggioranza a una normale dialettica con l’opposizione. E così dopo due fumate bianche stavolta il Pd ha indicato i suoi nomi per le commissioni bicamerali: segno che l’accordo c’è. Ieri i dem hanno indicato ai presidenti di Camera e Senato i propri rappresentanti. Altrettanto ha fatto Forza Italia. Le nomine arriveranno domani, ma ormai è certo: Lorenzo Guerini, già coordinatore della segreteria di Renzi e poi di Martina, lascia gli incarichi di partito e assume il delicato compito di presidente del Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica. Dove lo aspetta subito il primo dossier delicato, sollevato dal suo stesso partito che chiede chiarimenti sull’opportunità che la ministra Trenta occupi il vertice del ministero della Difesa «essendo stata per anni presidente di Sudgestaid, una società che si occupa di reclutare mercenari che operano nei teatri di guerra del Medio Oriente», come recita un’interrogazione già depositata dai dem.

IN POLE PER LA COMMISSIONE Vigilanza Rai è invece Maurizio Gasparri, autore della vigente legge di riordino del sistema radiotv, da lui propugnata quand’era ministro di Berlusconi. Ma al contrario di Guerini, la sua nomina sembra meno certa.

PIÙ LENTI INVECE i meccanismi di formazione delle giunte. Quella delle autorizzazioni della camera andrà a Fratelli d’Italia, mentre quella per le elezioni andrà al Pd (a Roberto Giachetti, con oggni probabilità). Al senato la giunta invece è unica e dovrebbe andare a Forza italia.

MA A STARE NEL PIÙ CLASSICO pantano sono le nomine che spettano al governo. E che non si sbloccano. Perché fra Cinquestelle e Lega la quadra non si trova. L’assemblea di Cassa depositi e prestiti di domani potrebbe ancora rinviare le nomine, anche Di Maio assicura che l’intesa c’è. Ballano i nomi di Dario Scannapieco e Fabrizio Palermo in attesa che arrivino anche i nomi per il cda Rai (in pista i nomi di Fabrizio Salini e Andrea Castellari).

I DUE PARTNER DI GOVERNO si fidano così poco l’uno dell’altro che sono costretti a fare tutte le nomine contestualmente, per evitare scherzetti.