Al cospetto di un corpus letterario che ormai rivaleggia con quello discografico, appare riduttivo riferirsi a Francesco Guccini solo con l’etichetta cantautore. Nondimeno è inevitabile interrogarsi ancora sulla sua opera musicale. Anche se non è Roland Barthes a farlo, come si immaginava in Via Paolo Fabbri 43. Guccini è ben presente nel dibattito sull’attualità. Risponde duramente alla banale malvagità di chi, equiparando Liberazione e fase due, vorrebbe «pacificare» il 25 aprile — «Vada a chiederlo a Marzabotto, se han voglia di essere pacificati!» — citando poi Salvini, Meloni e Berlusconi nella sua «riscrittura» di Bella Ciao. Quanto al post emergenza, nessuna retorica: «Dopo il coronavirus non saremo migliori».

L’INTERVISTA verte su temi musicali, ma l’instabile quotidianità affiora spesso in primo piano, anche in vena puramente aneddotica. Come quando parla di Celestino, il falegname da cui ebbe la prima chitarra: «È più vecchio di me e mi ha telefonato due giorni fa per chiedermi come stavo. Con questo virus ci si chiama per sentire come sta l’uno e come sta l’altro…». Gli chiedo, all’indicativo presente: «Come componi le tue canzoni?». Lui vira verso l’imperfetto: «Partivo sempre da un’idea, dalla voglia di trattare un argomento; poi prendevo la chitarra e provavo una serie di accordi, dai quali nasceva una linea melodica su cui si inserivano le prime parole». Poi l’arrangiamento, momento in cui entrano in scena i suoi compagni di «bottega». Ricorda con affetto «il maestro Vacchi, purtroppo scomparso, che faceva arrangiamenti scritti, con tanto di spartito. Poi è arrivato Pier Farri…», colui che chiese ad Ares Tavolazzi un «suono giallo». «A partire dall’album Guccini (1983) ad arrangiare i dischi sono stati sempre i musicisti»: Ellade Bandini alla batteria, Ares Tavolazzi al basso, Vince Tempera al piano «e al telefono — aggiunge ridendo — perché lo chiamavano continuamente a fare qualcosa da qualche parte!». Poi, dopo Deborah Kooperman, lo storico chitarrista Flaco Biondini, co-autore di una quindicina di brani.
«Arrivavo in sala d’incisione, facevo ascoltare la canzone con la chitarra, quindi si iniziava a lavorare. Per gli ultimi dischi in un mese finivamo, mentre prima…». Insofferente alle lungaggini degli studios, ne ricorda i luoghi con toni quasi epici: «Il primo disco fu registrato in una sala d’incisione enorme, si chiamava La Basilica, una ex chiesa di proprietà della Emi. Si accendeva questa luce rossa, i tecnici in camice bianco, era una cosa religiosa! A Milano si andava avanti finché si avevano idee, anche oltre l’orario; a Roma, invece, alle cinque dicevano: «Aò, che stamo a fa’, dobbiamo chiudere!». Infine il mulino dei nonni diventato sala d’incisione per L’ultima Thule (2012): «Sono arrivati qui a Pavana con un registratore… le mie canzoni le ho registrate in cucina!». Ho il sospetto che ciò che più rimpiange degli studi di registrazione siano le osterie: «Era bello stare a Milano, la sera andavo sempre da qualche parte. Un mio amico giornalista mi portava in una trattoria toscana in via Gian Giacomo Morra. Per la casa discografica il conto delle nostre cene era pari — se non superiore — a quello dei musicisti!». Bisognerebbe citare le trattorie nei crediti di copertina, suggerisco. Francesco ride: «Ah sì, certo! Ma una volta l’ho fatto, se non sbaglio su L’isola non trovata».

INEVITABILE il confronto con l’attuale scenario, fatto tutt’al più di cene a domicilio. Mi impongo di restare attinente al discorso musicale, evitando di invadere le sue «stanze di vita quotidiana». Sulle differenze tra la musica creata in studio e quella interpretata dal vivo Guccini torna a usare il presente, benché sia sceso dal palco sette anni fa: «La canzone vive di tanti momenti diversi. In concerto non si riproduce esattamente ciò che è stato fatto su disco; e poi c’è la comunicazione teatrale del cantante…».

GLI CHIEDO del Guccini cantante, appunto. «Mi vien da ridere, perché sono senza voce da più di un mese! Nell’ultima canzone che ho registrato, Natale a Pavana [nella raccolta Note di viaggio – Cap. 1], ero completamente afono, me l’han fatta cantare con la pistola alla nuca, quasi!». Sottolinea la sua evoluzione vocale nel corso degli anni: «Ho imparato a cantare negli ultimi dischi soprattutto. C’è stata una grande maturazione», anche se confessa: «Ho sempre considerato la voce di De André più bella della mia». Nei giorni in cui ci si interroga anche sul futuro della musica, gli chiedo se non sia giunto il momento di storicizzare la canzone d’autore. «È stato uno dei movimenti più importanti nella storia della canzone italiana, ha prodotto cose di grande livello, fino agli anni Settanta-Ottanta. Ma non ci sono più personalità di quel tipo, non si fa più quel tipo di canzone. I De André, i De Gregori, non nascono più».

RIBADISCE infine la sua estraneità alla scena musicale attuale: «Non seguo assolutamente più la musica. Ho ascoltato di tutto nella mia vita, ora ho un impianto stereo lì e due casse che non so più quando ci ho messo le mani l’ultima volta». Anche le chitarre sono poggiate in un angolo: «Non le tocco più, non ho più i calli sulle dita, non so neanche se so ancora suonare». Aggiunge poi con fin troppa modestia: «Ammesso che sapessi farlo prima!». Da chitarrista sostengo di sì. «Non ci credo», si schernisce. «Ma grazie, comunque».