È iniziato in Guatemala il processo all’ex capo della polizia, Pedro Garcia Redondo, 70 anni, unico imputato per il massacro all’ambasciata spagnola, il 31 gennaio del 1980. Allora, un gruppo di indigeni, contadini e studenti occupò la sede diplomatica per denunciare la repressione dell’esercito nelle comunità, nel pieno della lunga guerra civile, durata dal 1960 al 1996. L’assalto armato di militari e polizia provocò un incendio in cui morirono 37 persone, compresi quattro diplomatici spagnoli. Tra le vittime, il padre e lo zio materno di Rigoberta Menchu (Nobel per la pace nel 1992), Vicente Menchu e Francisco Tum.

Durante il processo, Rigoberta ha ricordato fra le lacrime quegli anni di massacri e repressione e ha affermato di avere le prove della «politica di repressione, terrorismo di stato e tortura» attuate durante la guerra civile. Menchu ha perso anche la madre, attivista per i diritti dei maya, i cui resti non sono mai stati ritrovati: una delle 250.000 vittime, in maggioranza indigene, di quella guerra civile. Davanti al tribunale, le organizzazioni per i diritti umani che si battono contro l’impunità e le persistenti connivenze ai più alti livelli di governo (a cominciare dall’ex generale Otto Pérez Molina, «Manodura», oggi presidente, coinvolto nei massacri di quel periodo) hanno eretto un altare di fiori e candele bianche a forma di croce con i nomi degli uccisi.

Gli accordi di pace, alla cui firma ha partecipato Molina, non hanno intaccato le strutture di potere esistenti nel paese. Nel 2005, un enorme archivio della polizia, scoperto in un deposito di munizioni, ha gettato nuova luce sui quei crimini.