La Corte costituzionale, in Guatemala, ha annullato la sentenza conto l’ex dittatore Efraín Ríos Montt per vizio di forma. Il 10 maggio, un tribunale presieduto dalla giudice Jazmin Barrios lo aveva condannato a 80 anni di carcere, 50 per genocidio e 30 per lesa umanità. Delitti commessi nel dipartimento nord-occidentale del Quiché ai danni della popolazione indigena maya Ixil, tra il marzo 1982 e l’agosto dell’83. Diciassette mesi durante i quali l’ex generale, dopo aver preso il potere con un colpo di stato, aveva deciso di far «terra bruciata» dell’opposizione e degli indigeni, accusati di appoggiare la guerriglia di sinistra. Il suo governo abusivo fu uno dei più cruenti all’interno della sanguinosa guerra civile che sconvolse il paese dal 1960 al 1996 e che, secondo l’Onu, si lasciò dietro 200.000 morti e più di un milione di rifugiati.

«Nel 1982 la sovversione era nel parco Central pronta per prendere il potere – ha dichiarato al processo Montt -. L’esercito era stanco della guerra. Mi chiamarono per guidare un colpo di stato e io accettai, perché bisognava uscire dal pantano in cui ci trovavamo. Come capo di Stato, il grande impegno preso con gli ufficiali giovani che avevano fatto il colpo di Stato fu quello di lavorare in democrazia». Un «impegno democratico» che, come hanno raccontato cento testimoni e sopravvissuti, ha causato la morte di 1.771 persone, massicce espulsioni, torture e stupri contro la comunità maya ixil.

È stata annullata anche la sentenza emessa nei confronti dell’ex capo dell’intelligence militare José Mauricio Rodríguez Sánchez, assolto nello stesso processo. La Corte ha accolto uno dei ricorsi presentati dai legali di Montt, ha mantenuto la giudice Barrios come presidente, ma ha deciso di ricominciare il processo dal 19 aprile, un mese dopo l’inizio, al momento in cui era stata decisa una pausa di sospensione. Rios Montt, a cui erano stati revocati gli arresti domiciliari, è ricoverato da una settimana in ospedale per problemi cardiovascolari. Su di lui incombe un altro processo, quello per la strage di Dos Erres, commessa il 7 dicembre del 1982 dalle forze speciali antiguerriglia che assassinarono 201 persone, in maggioranza donne e bambini. Cinque militari, riconosciuti colpevoli, sono stati condannati a 6060 anni di prigione ciascuno.

La sentenza di condanna e ora la decisione della Corte di rifare il processo sta suscitando grande discussione. I familiari e gli amici dei militari, che hanno manifestato a più riprese durante il processo, hanno sostenuto la tesi dell’innocenza di Montt e hanno contestato la condanna per «genocidio», ammettendo al massimo «qualche eccesso» dovuto all’importanza dello scontro in atto. Stesso parere ha espresso l’attuale presidente del Guatemala, l’ex generale Otto Pérez Molina, detto «manodura», che in molti vorrebbero vedere alla sbarra e che, durante il processo è stato chiamato in causa come complice dei massacri da un testimone dell’accusa.

La prima denuncia contro Rios Montt l’ha messa in moto in Spagna l’ex premio Nobel per la pace Rigoberta Menchu, ma quel percorso non ha avuto esito in Guatemala. L’ex dittatore, attivo in politica, ha potuto essere portato a giudizio solo quando è decaduta l’immunità parlamentare. La tesi del genocidio è peraltro accolta tiepidamente anche da una parte dell’opposizione di sinistra, che teme di veder confinata a «conflitto etnico» la partita che si è giocata in quegli anni in Guatemala all’interno della più generale «guerra al comunismo» che gli Usa e i loro alleati hanno combattuto in America latina. E in Guatemala, repressione e presenza dei militari, ieri come oggi colonna nevralgica del potere, continuano.