Il 31 gennaio del 1980, provenienti da varie zone di El Quiché, insieme ad alcuni studenti, operai e rappresentanti della chiesta cristiana di base occuparono pacificamente l’ambasciata di Spagna a Città del Guatemala. Gruppi sociali in contatto con l’ Ejercito Guerrillero de los Pobres che intendevano richiamare l’attenzione sull’insopportabile situazione subita dalle popolazioni indigene dell’altipiano: sui massacri commessi dall’esercito guatemalteco agli ordini del generale Fernando Romeo Lucas Garcia, al potere nel paese dal 1978 all’82. Maximo Cajal, ambasciatore spagnolo di stanza in Guatemala, cercò di mediare tra gli occupanti e i funzionari guatemaltechi, sollecitando invano che le forze di polizia rompessero l’accerchiamento dell’edificio. Il generale Garcia dette pereò l’ordine di attaccare la sede diplomatica.
Al primo piano, nell’ufficio dell’ambasciatore avevano trovato rifugio 37 persone, che vennero bruciate vive. Tra queste, anche il padre dell’ex premio Nober per la pace Rigoberta Menchu. L’ambasciatore, benché ferito, sopravvisse per miracolo e in seguito poté rientrare nel suo paese. Anche un contadino, Gregorio Yuja, era sopravvissuto, sepolto dai corpi dei compagni che lo avevano protetto. Il giorno dopo, però, venne portato via a forza dall’ospedale, torturato e ucciso. Il suo corpo venne lanciato di fronte al rettorato dell’Università di San Carlos, a febbraio di quello stesso anno. Di fronte all’evidente gravità dei fatti, la Spagna ruppe le relazioni con il Guatemala.
Erano gli anni della guerra fredda e della lotta senza quartiere portata dai poteri forti al «pericolo comunista». Gli anni dei Videla, Pinochet, Bordaberry, Trujillo, Somoza, Lucas e del dittatore Rios Montt, tornato sotto processo in Guatemale. Gli anni dei Montoneros, dei Tupamaros, del Frente Farabundo Marti, dei Sandinisti e dell’Esercito guerrigliero dei poveri. I dittatori andavano a scuola di tortura alla Escuela de las Americas diretta da Washington. Tempi di repressione selvaggia agli oppositori, gettati vivi dagli elicotteri nell’Atlantico, nel Pacifico o nel vulcano Pacaya in Guatemala. Chi non veniva ucciso, come l’ambasciatore Cajal, doveva essere screditato, distrutto moralmente e professionalmente come si è cercato di fare nei suoi confronti.
Spagna e Guatemala ripresero le relazioni il 22 settembre del 1984 con l’impegno di trovare e perseguire i responsabili. A tutt’oggi, però, in Guatemala persiste l’impunità per i gruppi di potere che hanno gestito la «democrazia sotto tutela» alimentando colpi di stato militari e repressione e che hanno solo cambiato casacca. Il Centroamerica è ancora sotto la presa di Washington, oggetto dei nuovi piani economico e militari che perpetuano storture e disuguaglianze. Il Guatemala continua a essere preda di mafie e strutture clandestine che orientano le politiche neoliberiste di vecchie e nuove oligarchie. Gli accordi di Pace, che hanno posto fine alla lunga guerra civile a dicembre del 1996, sono rimasti per lo più incompiuti.
Il paese continua a pagare un alto prezzo di sangue alla violenza strutturale ereditata da quel periodo. Il Partito patriota ha portato alla presidenza l’ex generale Otto Pérez Molina, attivo nella repressione di quegli anni e più volte chiamato in causa dalle organizzazioni contadine e per i diritti civili. Il primo semestre del 2013 ha fatto registrare una nuova impennata di violenza di femminicidi e di assassinii di oppositori. Le leggi di ordine pubblico, applicate da «Mano dura» Molina servono per mascherare la repressione politica contro la sinistra e i popoli indigeni che lottano per ottenere nuove leggi che tutelino il lavoro in miniera, le risorse naturali, e per ottenere una riforma agraria.
Ogni anno, la fondazione Rigoberta Menchu Tum ricorda il massacro all’ambasciata di Spagna e rinnova la battaglia per ottenere il diritto alla memoria dentro e fuori i tribunali.