Come è cambiata la visione di noi stessi e della realtà che ci circonda e, soprattutto, come si è modellata in relazione ai rinnovati sistemi mediatici di rappresentazione?

Provano a rispondere a queste e ad altre questioni nell’ambito dei visual e dei media studies, due saggi da poco usciti: Come vedere il mondo. Un’introduzione alle immagini: dall’autoritratto al selfie, dalle mappe ai film (e altro ancora) di Nicholas Mirzoeff (Johan & Levi editore) e Radical Mediation. Cinema, estetica e tecnologie digitali di Richard Grusin (Pellegrini editore).

Si tratta di due teorici giù noti nel nostro paese per altri contributi: del primo Meltemi ha pubblicato anni fa Introduzione alla cultura visuale; il secondo è invece famoso per il suo Re-mediation, scritto con Jay David Bolter ed edito nel 2001 da Guerini e associati, diventato una bibbia degli studi sui nuovi media insieme al libro di Lev Manovich.

C’è subito da dire che, mentre il testo di Mirzoeff ha una sua maggiore compattezza, quello di Grusin è una raccolta di saggi (curata da Angela Maiello) pubblicata nel corso di molti anni, tutti incentrati sulla teoria della «pre-mediazione» e, per quanto la complessità della sua riflessione superi forse le considerazioni di Mirzoeff, ha l’inevitabile pecca di essere ripetititivo. I due discorsi teorici non sono comunque opposti, ma tendono ad intrecciarsi, e Mirzoeff nel suo libro cita inevitabilmente proprio Grusin, a proposito del fenomeno di #occupywallstreet, cui viene dedicato un ampio saggio in Radical Mediation, a dimostrazione che, malgrado la diversa formazione e impostazione dei due studi, vi sia un’inevitabile convergenza tra autori uniti da una stimolante impostazione diacronica e interdisciplinare.

IL SELFIE

Il capitolo iniziale di Come cambiare il mondo, parte da una riflessione sul genere dell’autoritratto, per approdare al selfie, componente imprescindibile della nostra quotidianità; ma il volume poi continua affrontando l’immancabile rapporto tra immagine, visione e neuroscienze, riflettendo sull’evoluzione dei dispositivi bellici di riproduzione visiva e distruzione degli obiettivi sensibili (in linea con le ricerche di Paul Virilio), per poi passare in rassegna come i media – soprattutto la fotografia – hanno messo in scena la città; più «politici» gli ultimi due capitoli del libro, incentrati da un lato su come l’arte e l’architettura abbiano visualizzato storicamente i cambiamenti avvenuti nel mondo, dall’altro lato su come i media – attraverso la diffusione dei social e dei movimenti creati attraverso la Rete – possono cambiare il mondo, citando a esempio due casi radicalmente diversi: la primavera araba e il citato movimento anti-Wall Street.

UN MANIFESTO

La tradizione del «pensiero visuale» cui si ricollega Mirzoeff non è solo teoria, ma diventa anche una pratica nell’epilogo del libro, quando cioè lo studioso decide di redigere un manifesto pragmatico: «Se nel 1990 – scrive – potevamo usare la cultura visuale per criticare e contrastare il modo in cui eravamo rappresentati nell’arte, nel cinema e nei mass media», ai giorni nostri possiamo invece servirci della cultura visuale per «creare immagini di noi stessi, nuovi modi di vedere ed essere visti, e nuovi nodi di vedere il mondo», avvertendo tuttavia che «imparare a vedere il mondo è solo uno dei passi necessari. Il punto è riuscire a cambiarlo». Quello che definisce “attivismo visuale” è, dunque, un’«interazione di pixel e azioni reali allo scopo di generare il cambiamento».

GRUSIN

I nove saggi che compongono il volume di Grusin – tutti già pubblicati tra il 2000 e il 2016 (alcuni anche in Italia) – nascono da un superamento della «ri-mediazione», nozione elaborata a partire da uno dei concetti-chiave del McLuhan di Understanding Media: «il contenuto di un medium è sempre un altro medium», letto da Bolter e Grusin con l’idea che i vecchi media non vengono sostituiti dai nuovi, bensì inglobati e attualizzati. L’intuizione del massmediologo canadese è stato portato dai due teorici dei media alle sue estreme conseguenze, in una prospettiva storica (dalle origini del cinema fino all’avvento di internet) secondo una doppia logica, quella dell’«immediatezza trasparente» e dell’«ipermediazione»: da un lato i new media ci pongono di fronte alla rappresentazione senza filtri, cancellando i segni della mediazione, dall’altro, invece, come le finestre del browser sui nostri computer, moltiplicano le cornici e le finestre e quindi marcano l’esistenza del dispositivo.

11 SETTEMBRE

La scelta di andare oltre quella teoria si è resa secondo Grusin necessaria dopo l’11 settembre, poiché quel trauma in diretta «ha prodotto il desiderio di non fare mai più esperienza di qualcosa che non sia già stato premediato». A differenza della doppia logica della rimedizione, la premediazione manifesta «la paura dell’immediatezza, della trasparenza estrema che l’11 settembre ha prodotto, in cui la combustione e il crollo delle Twin Towers furono percepite come svincolate da qualsiasi mediazione, nonostante queste mediazioni si moltiplicassero ad un andamento quasi vertiginoso». I due film esemplificativi del passaggio dalla rimediazione alla premediazione sono Strange Days e Minority Report, film dove «la tecnologia anziché catturare esperienze neuronali per riprodurle nel futuro, cattura ‘pre-cognizioni’ del futuro per riprodurle nel presente – al fine di prevenire che eventi registrati possano diventare storia reale, che il futuro divenga passato».

LA TELEVISIONE

Grusin tuttavia si smarca da Zizek o da Baudrillard, non riferendosi alla rappresentazione di eventi catastrofici nel cinema, ma a quella ben diversa della televisione. Quanto accaduto nella realtà dopo il 2001, ovvero l’invenzione delle armi di distruzione di massa per poter attaccare l’Iraq e far cadere Saddam Hussein, si intrecciava strettamente alla logica mediatica, secondo cui la premediazione è diventata il regime dominante: «La mediazione della guerra e i suoi effetti potevano verificarsi solo dopo essere stati anche rimediati dalle reti mediali, dai portavoce di governo e in generale dalla cultura nel suo complesso». In vari punti del libro Grusin ci tiene a distinguere il suo pensiero da quello di Baudrillard, affermando che non è la realtà ad essere una simulazione, bensì la simulazione (il regno del videogame, ad esempio) ad essere reale.

Collegate al processo di mediazione, rimediazione e premediazione sono le riflessioni che occupano i capitoli successivi: dal cyberspazio all’«ubiquitous computing», da Youtube al «mediashock», dal cinema digitale e «diffuso» delle interazioni riconfigurato nell’era del dvd e del videogame fino a un’accurata disanima del concetto di «mediazione radicale» (che dà il titolo alla raccolta), umana e perfino non-umana, vista in chiave affettiva e biologica, come modalità produttiva di conoscenza che si estende oltre ai media all’intera esistenza. Ancora una volta il riferimento è alla teoria mcluhaniana della natura aptica dei media come estensioni del nostro corpo, ma Grusin rimanda anche a Merleau-Ponty, Peirce e Simondon.

Pur nella loro diversità i due libri di Mirzoeff e di Grusin costituiscono due contributi rilevanti a un dibattito storico-teorico dove, sempre di più, le arti e i media si intrecciano, diventando un punto di riferimento per studiosi di diversi campi, a cominciare dai tanti storici e critici dell’arte ancora prigionieri di un territorio troppo delimitato e dai molti massmediologi poco attenti alla lezione multidisciplinare di una figura profetica come quella di McLuhan.