Sembra uscito da Costume degli italiani di Gianni Celati questo Buttarelli, protagonista de La vita dispari (Einaudi, pp. 281, euro 19,50) di Paolo Colagrande. Un compagno di viaggi di Pucci se non un vero e proprio erede di Guizzardi. Tuttavia, quella vicinanza – che assume a tratti il sapore della somiglianza in forma di omaggio al maestro Gianni Celati – se in parte insospettisce, per l’altra intenerisce e assume lestamente i toni di un’autonomia autoriale originale che non da oggi Colagrande si è conquistato, a partire dal suo ottimo esordio con Fìdeg nel 2007.

AL PROTAGONISTA de La vita dispari è impedito di vedere l’interezza, avendo a disposizione dello sguardo solo metà del mondo che lo circonda, il tempo necessario, e con il tempo la misura. Colagrande ha scritto una storia delicata, che non vive solo di un surrealismo di maniera, figlia di Celati e per certi versi ancor di più di Cavazzoni, ma autonoma e capace solidamente dinarrare un’epoca contemporanea. Il gusto per la lingua, per la sua materia capace di stare in bocca ai personaggi diviene in questo libro l’asse portante di uno sguardo che da monco si conferma totale, proprio perché privo di una metà esatta.
Nel suo viaggio esistenziale di formazione, Buttarelli si trova così protagonista dei malanni, delle incertezze e delle ansie che caratterizzano – buffamente e tragicamente – l’uomo moderno. Si mostra anche totalmente idiota, nel senso delle brevi vite di Cavazzoni. Moderata e splendidamente eccessiva, La vita dispari è lontana da costruzioni o teorie artefatte quanto vacue; si avvale della lezione dei maestri proponendo un viaggio comico (e dunque disperato) ricco e vitale. Un viaggio sghembo, nei tic come nei riferimenti a quei novellieri da cui tutta la letteratura italiana discende.

UNA LUNGA SLAPSTICK presentata in unico piano sequenza fatto di incroci e incontri, come fossero visioni casuali eppure perfettamente decifrate durante quell’«inciampo» che è il susseguirsi delle avventure di Buttarelli (il quale già nel nome tradisce una romantica tendenza alla caduta e quindi al volo).
Il romanzo tiene in equilibrio il ricordo come esistenza di un passato eterno e il futuro come vaga indicazione possibile di un presente nebbioso. Basti seguire Gualtieri (amico fraterno di Buttarelli) nel suo ostinato far niente, come un moloch piantato nel mezzo dei dubbi e delle incertezze dell’amico.
Il simbolico si appiana nell’intreccio di una storia in cui ogni gesto è simbolo stesso di un modo di intendere vita e letteratura, strade parallele di un’esistenza labile, ragionevole e stupida, in cui i pesi non vanno a equilibrarsi, ma a sbilanciare l’andamento di una giornata come di un discorso.