La questione albanese, oltre che antefatto del precipizio dei Balcani tutti con la devastazione nazionalista della Federazione jugoslava ai nostri confini, è stato per l’Italia l’89 più prossimo alla nostra storia politica, il «crollo del muro» che più ci ha coinvolto appena di là dai nostri mari, Adriatico e Ionio. Riaprire quella pagina è il lavoro che ha voluto portare a termine la cura di Giovanni Accardo con il libro Dialogo sull’Albania (Alphabeta Verlag, pp. 277, euro 16, con prefazione di Goffredo Fofi), autori inconsapevolmente insieme, Alexander Langer e Alessandro Leogrande, dei quali il curatore ha riproposto molti scritti «albanesi». Un «dialogo» che ha il merito di restituirci uno specchio immediato della questione albanese che tanto ci riguarda per un’area, quella dell’intero Mediterraneo, dove a interventi armati «umanitari» si susseguono crisi di profughi, esodi di massa e strategie-propaganda fatte di menzogne e respingimenti, in primo luogo di nostre colpe e responsabilità. L’Albania deve coinvolgerci ancora, è un metro per misurare la nostra memoria e il nostro presente, non solo perché parlano albanese le giovani dei call center e gli edili sospesi sui ponteggi delle nostre città.
Alex Langer – molti testi riproposti uscirono negli anni Novanta sul manifesto – fu inviato dal Parlamento europeo a seguire la crisi a Tirana prima nel 1990 e poi alle prime elezioni multipartitiche del 1991. Era un duplice ruolo, istituzionale e militante che doveva pesargli non poco. Lì lo si poteva incontrare, nelle strade di Tirana in rivolta, quando venne abbattuta la mega statua di Enver Hoxha, e per quelle di Scutari – luogo sede della mitologia mediterranea del «sacrificio edilizio» – durante le violenze scoppiate nel nord in occasione delle prime elezioni multipartitiche del 1991.

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AVREMMO DOVUTO aprirci a quegli sconvolgimenti, costruendo la famosa «casa comune», e un ascolto alle mille voci di giovani e di dissidenti che si affollavano davanti a noi e che chiedevano la parola; avremmo dovuto imbastire subito un «dialogo» di pace perché la specificità albanese sarebbe deflagrata nell’area: a questo lavorava Alex Langer con quel suo modo insieme dolce, rigoroso, febbrile. Invece prevalse una dimensione geopolitica di potere d’accatto, una malcelata idea di conquista che spalmata sugli interi Balcani sarebbe stata esplosiva. La raccolta di saggi e interventi, qualcuno anche inedito, mette in evidenza la capacità lungimirante e profetica di Alex che inorridiva davanti alle prime reazioni italiane di fronte ai profughi in fuga dall’Albania in rivolta quando ventimila albanesi arrivati con navi da fortuna sembravano mettere l’Italia in crisi e già allora qualcuno proponeva di sparargli. Quella pratica diventata regola di governo ha alimentato le sponde securitarie e nazionaliste cavalcate poi da Salvini e dai suprematisti-sovranisti europei.
Ancora vale la pena chiedersi – Alex troncò la sua vita nel 1995 – se è stato meglio per lui che non abbia fatto in tempo a vedere il disastro provocato dal fatto che le sue grida d’aiuto, le sue accorate ragioni restavano inascoltate, in Italia e in Europa. Pensiamo alla dimenticata tragedia della Kater i Rades, 108 vittime grazie all’affondamento da parte di una nave militare italiana di una carretta del mare in applicazione del blocco navale sulle coste dell’Albania deciso dal governo «democratico» italiano d’allora e imposto a quello di Tirana. Alex ahimé l’aveva previsto. Era quella «La nave brutta», parafrasando il bellissimo docu-film de La nave bella di Daniele Vicari.

FUGGIVANO DISPERATI dalla guerra civile in corso dall’inizio 1997 per la rivolta popolare contro le piramidi finanziarie emanazione del presidente albanese Sali Berisha, il leader politico della svolta «democratica» a Tirana nel 1991. E Alex non vide, ma l’aveva annunciato con precisione da anni, che il nazionalismo grande-albanese, vista la situazione delle minoranze nell’ex Jugoslavia sarebbe stato esplosivo in Kosovo e Macedonia, proprio a partire dall’autoritaria «democratura» di Berisha. Il quale in difficoltà dopo essere stato detronizzato, a fine 1998 tentò un golpe guidando nella capitale albanese schiere di miliziani armati, molti provenienti dall’area balcanica, contro il nuovo governo del socialista Fatos Nano.

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TUTTO QUESTO Alex lo aveva previsto. Ed esattamente dove la sua voce non è arrivata a fermare il peggio, è stata poi sapientemente raccolta dal giovane Alessandro Leogrande, come i suoi interventi della raccolta ben spiegano. Anche perché subito, d’istinto, voleva smascherare alcune mitologie narrative, come quella dell’intoccabile scrittore Ismail Kadaré. Grande scrittore sì, ma sempre in un esilio dorato, prima complice del regime del quale cantava le lodi – negli anni in cui scrittori come Dritero Agolli rischiavano la vita criticando il potere e dove giovani come Fatos Lubonja o Bashkim Shehu finivano in carcere – poi distante ma ossequiente al nuovo potere berishano filooccidentale.
Alex e Alessandro non si sono mai incontrati ma lo spirito dei tempi, ricorda Goffredo Fofi nella prefazione, era comune: entrambi adesso avrebbero trovato il modo di «svegliare i ‘compagni’ che si vergognano di esserlo stati» e anche « ‘i giovani’ soddisfatti della loro schiavitù mediatica e della loro deriva narcisistica».
Così, più che un discorso a due voci, questo libro, che raccoglie scritti di due grandi intellettuali corsari, ci sembra la ricerca del più giovane dei due, Alessandro Leogrande, di intonare la propria, rafforzarne timbro e vigore, recuperandone un’altra di una generazione anagraficamente lontana, ma intimamente e politicamente vicina per intima consonanza, quella di Alex Langer. Con l’esplicita volontà di raccoglierne il testimone proprio laddove la riflessione sul confine, sulla convivenza interetnica, molto forte e reiterata in quella dell’attivista altoatesino, si stava trasformando in un mondo mutato e globalizzato in frontiera, campo d’indagine invece dei suoi grandi reportage su come attraverso le migrazioni stava radicalmente cambiando l’economia del mondo e la sua percezione geopolitica.

LEOGRANDE comincia a interessarsi di migrazioni adriatiche e di Albania proprio negli anni successivi alla morte di Langer, che ne scrisse spesso in questo giornale da osservatore militante, avendo comunque responsabilità politiche come eurodeputato dei Verdi. Quindi i testi qui raccolti da Giovanni Accardo – al quale si deve il merito principale di una felice intuizione, cioè far emergere il legame profondo tra queste due figure di intellettuali civili – ci appaiono come complementari, storicamente divisi da un fatto epocale ed esplosivo, la caduta del muro di Berlino. Leogrande inizia a scrivere del «Paese di fronte», Tirana, dove era già stato giovanissimo come volontario della Caritas nel 2000, che dalla sua Taranto dista solo 200 km in linea d’aria; ha ventitré anni e ha già pubblicato il suo primo libro, Un mare nascosto (Ancora del Mediterraneo), e lo fa subito in forma ibrida e narrativa, racconta, connette pensieri, dati e cifre, raccoglie testimonianze, descrive i luoghi. È l’inizio di un lavoro serio di documentazione e reportage empatico sul campo che in pochi anni gli farà scrivere tre piccoli classici, Uomini e caporali, Il naufragio, La frontiera, tutti pubblicati da Feltrinelli. Nel secondo, ricostruisce con passione civile la storia dell’affondamento della piccola motonave albanese Kater i Rades, speronata da una corvetta della Marina italiana, quella che definisce proprio sul manifesto «la prima grande strage avvenuta davanti alle nostre coste» proprio mentre al governo c’erano Prodi e l’Ulivo.

QUELLO CHE ANIMAVA Langer e Leogrande – entrambi provenienti dal mondo del cristianesimo sociale – era una visione internazionale, il conio sempre politico del pensiero, l’istinto storico, e l’idea che la conoscenza, il dialogo, la cooperazione fossero in grado di favorire la convivenza e temperare i conflitti fratricidi, la violenza brutale della Storia. «I pesi mi sono divenuti davvero insostenibili, non ce la faccio più. Continuate in ciò che è giusto», scrisse Alex Langer prima di suicidarsi nel maggio del 1995. Non poteva immaginare che un ragazzo pugliese, che allora aveva solo 18 anni, tanto tempo dopo ne avrebbe raccolta l’eredità da «ideale continuatore», come scrive Goffredo Fofi, che fu maestro di entrambi, nella prefazione.