C’era una volta il Roberto Gualtieri storico alla Sapienza, vice di Giuseppe Vacca all’istituto Gramsci, chiamato in quota Ds nel 2006 a scrivere il manifesto dei valori del Pd insieme, tra gli altri, a Sergio Mattarella e Pietro Scoppola. Un intellettuale con la passione per la politica fin da ragazzino nella Fgci, che nel 2009 inizia la sua carriera da europarlamentare che lo porta al vertice della commissione per i problemi monetari.

Subito dopo la terza rielezione a Bruxelles, nel 2019, Gualtieri viene scelto da Zingaretti come ministro dell’Economia del Conte 2: dopo molti anni viene indicato un politico e non un tecnico, con la benedizione della presidente della Bce Christine Lagarde. Dopo pochi mesi a via XX settembre scoppia la pandemia che Gualtieri gestisce a stretto contatto con Conte, e con lui negozia con l’Ue il Pnrr.

Dopo la caduta del governo, a inizio 2021, il professore amante del jazz e della bossanova (ma anche dei Maneskin) si ritrova deputato semplice e inizia a pensare alla corsa per diventare sindaco di Roma. Una sfida in salita, in quel ginepraio che era il centrosinistra romano e nazionale. A marzo era pronto per candidarsi, Letta appena eletto segretario lo congela e inizia a lavorare all’ipotesi di candidatura di Zingaretti.

A maggio il governatore del Lazio rinuncia a correre e si apre la strada delle primarie. Gualtieri parte in sordina, avvolto dallo scetticismo per il suo profilo autorevole ma poco empatico. Il partito si stringe intorno a lui, le primarie di giugno sono senza veri avversari (i dem convincono Monica Cirinnà a non partecipare).

Lui vince col 60%, circa 28mila voti in una competizione senza pathos. È l’inizio di una lunga marcia, strada per strada. in autunno la campagna vera con l’incognita delle candidature di Raggi e Calenda. Lui la spunta e arriva al ballottaggio. Nel frattempo il «secchione» ha conosciuto Roma come le sue tasche. Al ballottaggio c’è Michetti, il gaffeur, la strada si fa in discesa. Il professore resta se stesso, ma acquista fiducia e grinta.