Con le spalle al muro e in caduta libera di consensi, e per di più retrocesso dalla stampa mondiale dal ruolo di «presidente ad interim» a quello di «leader dell’opposizione», Juan Guaidó tenta il tutto per tutto, deciso a giocarsi l’unica carta che gli rimane: quella dell’intervento militare straniero. Ed è così che rivolgendosi l’11 maggio alla sparuta folla dei suoi sostenitori, ha annunciato di aver dato istruzioni al suo pseudo-ambasciatore negli Usa Carlos Vecchio affinché «si riunisca immediatamente» con il Comando sud degli Stati uniti e con il presidente della Colombia Iván Duque per definire una «cooperazione militare internazionale».

UNA DECISIONE GIUSTIFICATA con l’argomento che in Venezuela sarebbe già in atto un intervento straniero, rappresentato dalla «penetrazione dell’Esercito di liberazione nazionale colombiano e dei militari cubani, come rivelato dallo stesso usurpatore». Dove il riferimento è al lapsus in cui è caduto Maduro il 9 maggio, parlando, durante una cerimonia di laurea di medici comunitari, dell’arrivo nel paese di «un gruppo di 500 soldati cubani», prima di correggersi con una risata spiegando che intendeva riferirsi a «500 medici specialisti». Una frase che Guaidó ha interpretato come l’ammissione della presenza di militari cubani nel paese, in aggiunta al «50% dell’organico della guerriglia dell’Eln» che si troverebbe in Venezuela: «Noi non vogliamo – ha detto – che il paese diventi un santuario del terrorismo».

Non è la prima volta, in realtà, che Guaidó arriva a sollecitare l’intervento militare straniero. Era già successo dopo il mancato ingresso di aiuti militari attraverso la frontiera colombiana, quando aveva dichiarato di vedersi costretto a «proporre in modo formale alla comunità internazionale di mantenere tutte le opzioni disponibili per liberare il paese». Salvo poi dover fare un passo indietro dinanzi ai tanti distinguo sull’uso della forza espressi dagli stessi governi amici del gruppo di Lima.

STAVOLTA, TUTTAVIA, non avendo davvero più frecce al proprio arco, non sembra poter far altro che confidare nell’ala più guerrafondaia dell’amministrazione Trump, malgrado le rivelazioni del Washington Post su una crescente insofferenza del presidente Usa rispetto alla strategia pesantemente interventista seguita finora in Venezuela da Bolton e dai suoi compari. Non a caso, il 9 maggio, appena due giorni prima dell’appello di Guaidó, il capo del Comando sud degli Usa Craig Faller aveva dichiarato di essere «disposto a discutere il modo in cui appoggiare il futuro ruolo dei leader delle forze armate» decisi a «restaurare l’ordine costizuonale», non appena avesse ricevuto l’invito «di Guaidó e del legittimo governo del Venezuela»: «Siamo pronti», ha detto.

Né l’autoproclamato presidente ad interim deve più preoccuparsi della possibilità che l’invocazione esplicita di un’invasione del proprio paese da parte di potenze straniere possa fargli perdere il sostegno della popolazione: quel sostegno semplicemente non ce l’ha più. Dalla Deutsche Welle all’Associated Press e France Press, molti media hanno dovuto ammettere il nuovo e completo fallimento della manifestazione convocata da Guaidó sabato scorso, prendendo atto del deciso calo di consensi registrato dopo il fallito golpe del 30 aprile (benché in realtà sia iniziato già prima).

COME SE NON BASTASSE, il nome di Guaidó viene ora associato anche a quello di un’impresa in gravissima crisi di reputazione: la Bayer, colosso tedesco della chimica e della farmaceutica, che, con l’acquisizione della Monsanto, ne ha ereditato anche le cause – due quelle già perse, in arrivo altre 13mila – intentate dalle vittime del glifosato, il principio attivo del diserbante Roundup dai «probabili» effetti cancerogeni (stando allo Iarc, l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro che fa parte dall’Organizzazione mondiale della sanità).

COSA ABBIA A CHE FARE il colosso tedesco con Guaidó lo spiega nei dettagli Whitney Webb sul sito MintPress News, evidenziando i legami della Bayer-Monsanto con figure chiave della strategia Usa diretta a operare un cambio di regime in Venezuela, dove finora la «Legge sulle sementi del popolo», approvata nel 2015, ha bloccato ogni tentativo dell’impresa di aprire il mercato venezuelano ai propri prodotti, glifosato e ogm inclusi. E vi accenna anche, sull’inserto Affari&Finanza della Repubblica di lunedì, Tonia Mastrobuoni, ricordando come Chávez avesse sventato già nel 2004 il piano della Monsanto di piantare 500mila acri di terra agricola con soia geneticamente modificata e riportando le accuse rivolte all’impresa di sostenere Guaidó «per rientrare nel paese e impadronirsi delle piantagioni».

 

Al lavoro in un’azienda agricola venezuelana