«Gauguin, con la sua sovrana potenza di visione e di espressione, offre l’esempio di rare facoltà decorative, al servizio di una radiosa intelligenza; sembra un etnografo, specialmente adatto a decifrare l’enigma dei volti e degli atteggiamenti, a cogliere la severa bellezza delle immagini primitive, a incarnare nel suo ritmo e nella sua grandezza ieratica il gesto dei contadini e degli uomini semplici». Così il critico Roger Marx nel 1891, pochi mesi prima della partenza dell’artista per la Polinesia francese, descrive la sua abilità e perspicacia nell’interpretare le profonde tortuosità dell’animo umano. Ed è appunto intorno alla ritrattistica che si incentra l’importante, preziosa mostra che la National Gallery di Londra, dopo una prima tappa a Ottawa, dedica a Paul Gauguin fino al 26 gennaio, con un copioso catalogo ricco di interessanti saggi incentrati esclusivamente a esplorare il particolare aspetto di una produzione ampia, motivo per la prima volta di vero approfondimento.
Il risultato di questa ricerca originale è assolutamente sorprendente già dalla prima sala dove è esposta una serie di autoritratti, da quelli giovanili fino agli ultimi anni. Qui nella successione delle tele si segue il percorso della sottile e approfondita analisi psicologica attuata dall’artista attraverso la propria persona seguendo la scia dell’immaginazione e della sua storia privata. Un percorso di piena coscienza del proprio io nelle infinite sfaccettature di una soggettività incarnata in molteplici sembianze, anche fisiche, nell’impronta dei grandi maestri del passato la cui effigie, da Dürer a Rembrandt, sembra fortemente ispirarlo nella posa o nelle espressioni del volto. Una vera prefigurazione, quasi il segno di chi, con piena consapevolezza, sta plasmando per la posterità l’immagine di una leggenda, di un mito. Dal primo autoritratto del 1885 con tavolozza in mano e sguardo rivolto all’altrove di un miraggio che solo il sogno può restituire, alla tela dedicata all’amico Eugène Carrière tra il 1888 e il 1889, dove si ritrae con espressione sprezzante su fondo veronese, acuto nel timbro cromatico come il giallo della maglia, o al Cristo nel giardino degli ulivi del 1889, è un Gauguin messo in croce che esprime tensioni e sofferenze dell’essere artista.
Lettera alla moglie Mette
In un continuo gioco di identificazione con l’altro, Gauguin modella la sua immagine di uomo dalla doppia natura, come scrive alla moglie danese Mette, «di indiano d’America e di individuo sensibile», sempre più definendo i confini che lo separano da un mondo occidentale al quale sempre meno sente di appartenere. Già dal 1886, ancora in Francia, la sua inquietudine lo spinge verso luoghi lontani dalla civiltà, verso quella Bretagna ancora incontaminata dove, al contatto con la spontaneità e la minore artificiosità della gente e del paesaggio, sperimenta la possibilità di liberarsi dalle atmosfere cupe e dalla rigidità dei canoni delle primissime tele. Un tentativo evidente anche nelle pagine domestiche e familiari dove l’artista riprende, da posizioni sfalsate, i suoi soggetti in una pittura di lunghi filamenti prima, poi di stesure più omogenee come nella scena di Clovis addormentato.
Ma il confronto con una Parigi troppo vicina lo opprime. Di qui la prima partenza per un vero altrove geografico, da Panama alla Martinica, alla ricerca del primigenio e del principio costitutivo della realtà, dove la sua pittura trova una nuova dimensione di libertà e le superfici si accendono di timbri accordati a quei mari e a quei cieli. Di nuovo la Bretagna, poi la breve, tragica, convivenza ad Arles con Van Gogh: li divide una inesorabile diversità di carattere e di visione. Il ricordo dell’amico, fratello del suo mercante Theo, tornerà a perseguitarlo nel tempo, trasposto in un immaginario metamorfico dove i tratti del volto saranno sostituiti dalle violente cromie di grandi girasoli. Quell’immaginario metamorfico che rappresenta la vera singolarità del Gauguin ritrattista.
Ritratti irregolari che deviano dai percorsi rituali del modello in posa in un forte spiazzamento della visuale, dove gli amici – ad esempio Charles Laval o l’allievo Władysław Slewinski – prendono le sembianze dell’esegesi del pittore. L’uno arretra quasi annullato nel giudizio dell’artista che lo sacrifica a una natura morta altrettanto atipica, fortemente dominata da una forma plastica cava che inghiotte lo sguardo vacuo del soggetto; l’altro, decentrato, è stretto in un angolo per fare spazio al vaso di fiori e al fantasma, quasi una sinopia, di un dipinto dello stesso Gauguin. La complessità del personaggio Meijer de Haan, chiuso in un’aura di interiorità, è rivelata invece dai suoi attributi di studioso di testi sacri; nella scultura in legno del 1889-’90 – bizzarra, brutale come le ceramiche in mostra – appare simile all’erma di una divinità nordica incorniciata di simboli enigmatici e indecifrabili.
Verdi luminosi e tocchi violacei
È un occhio interiore quello che domina nello splendido, sintetico, studio per un autoritratto, il terzo occhio magico e onnivedente che guarda il «vero» al di là delle apparenze. Così come in quel Bonjour Monsieur Gauguin, sulla scia della celebre opera di Gustave Courbet, sul cui sfondo, sinfonia di verdi luminosi e tocchi violacei, baluginano sfuggenti presenze eteree, quasi mistiche allucinazioni, straordinariamente cristallizzate già nella famosa Visione dopo il sermone. Ma la vera visionarietà di Gauguin si esprime anche attraverso l’appropriazione di linguaggi e di una grammatica compositiva eccentrici, in quei tagli visivi e prospettici delle stampe giapponesi tanto amate dalla Francia impressionista fino allo stesso Van Gogh. Contaminata e ibridata, la sua pittura rovescia allora in superficie i piani di profondità, nelle campiture larghe dai pochi rilievi e dai colori rilucenti simili a brillanti laccature a smalto. E ancor più si arricchisce di note e sonorità simboliste, quasi una dichiarazione di poetica riflessa nei ritratti di Jean Moréas e di Stéphane Mallarmé, carichi di impenetrabili emblemi ermetici o di chiari riferimenti a una vocazione intellettuale e letteraria.
Nella ripetuta fuga verso quei paradisi intensamente inseguiti anche da Pierre Loti, continueranno a viaggiare con lui quelle note e sonorità ormai amplificate nello spazio di un racconto di territori d’oltremare, nello stile e nelle forme di dipinti solo apparentemente semplificati dove si preannunciano conflitti latenti e risonanze intime che emergeranno poi in forma quasi sulfurea e magica negli «antenati» delle ultime raffigurazioni. Non ancora dichiarati nelle splendide tele qui esposte, come Faaturuma, Suzanne Bambridge, Te Tiare Farani, Vahine no te vi, Merahi metua no Tehamana, tra il 1891 e il 1893, attraverso le quali Gauguin scopre fino in fondo «ciò che l’animo ha permesso di vedere e soprattutto ciò che gli occhi soli mai avrebbero veduto, questo fuoco intimo, intenso…». Con gli occhi di chi si identifica nel selvaggio che vede in lui il selvaggio, proprio lui dalle lontane origini amerinde, eredità di quella nonna, Flora Tristan, straordinaria figura di intellettuale femminista e socialista. Ma ancora nel ricordo di coloro che ha ammirato e da cui è stato ammirato, riaffiorante qui nell’ombra della Stiratrice di Degas in una malinconica natura morta del 1901.
«Una mescolanza inquietante di barbaro splendore, di liturgia cattolica, di fantasticheria indù, di immaginazione gotica, di simbolismo oscuro e sottile. Un’arte – nelle parole anticipatrici di Octave Mirbeau – assolutamente personale e nuova: arte di pittore e di poeta, di apostolo e di demone».