Quando nel 2009 Emmanuel Carrère pubblicò Vite che non sono la mia in molti ci chiedemmo quale fosse la natura dell’oggetto letterario che avevamo tra le mani. In quel libro, così sconvolgente per dolore e bellezza, Carrère diceva una cosa molto semplice: ho ricevuto queste storie e ne devo avere cura, così come devo avere cura di chi me le ha consegnate. Ma diceva anche altro: il dolore, per chi vi si trova immerso, si presenta come frammenti senza forma. Scrivere di quelle storie, per l’autore di Limonov, significava dunque prima di tutto riorganizzare le macerie, giustapporle in un forma che fosse visibile, offrirle come un paesaggio a chi le aveva vissute solo da un interno claustrofobico. Vite che non sono la mia era dunque prima di tutto una restituzione, e una promessa mantenuta a metà: restituirò la vostra storia e avrà finalmente un senso. Ma sarà il mio.

Una maniglia per entrare
La stessa idea di scrivere per restituire – e per certi versi per farne un dono – salta agli occhi all’apertura del nuovo romanzo della scrittrice messicana Guadalupe Nettel, La figlia unica (La nuova frontiera, traduzione di Federica Niola, pp. 213, € 16,90) la cui dedica è chiara: «Alla mia amica Amelia Hinojosa, che con grande generosità mi ha permesso di raccontare nei particolari la sua storia, concedendomi anche la libertà di inventare quando era necessario».

Avrebbe potuto non scriverlo, oppure relegarlo allo spazio extratestuale dei ringraziamenti finali dove si saldano con discrezione debiti e riconoscenze. Invece, al contrario, ne fa la maniglia che apre la storia, dice al lettore che sta per maneggiare non la vita dell’autrice ma quella di un’altra persona, che lei – l’autrice – si incarica di ricomporre e offrire al lettore. Nel prendersi cura di una vita che non è la sua, implicitamente ci chiede di fare anche noi lo stesso.

A differenza di Carrère, però, Nettel esercita una certa discrezione: si ferma e lascia che il lettore varchi la soglia e si trovi dentro un ambiente in cui vige il patto non scritto della finzione, del romanzo. Protegge Amelia Hinojosa, e al tempo stesso protegge chi legge. Chi dice «io» è un personaggio: si chiama Laura e non Guadalupe, e dice che non si è mai sentita a suo agio con i bambini, che sta finendo la sua tesi di dottorato e ha due amici, Alina e Aurelio in attesa di una bambina, che si sospetta non sopravviverà al parto. Il lettore dimentica la maniglia appena afferrata per entrare nel libro e lascia che il racconto lo travolga in un tornado di visioni e soprattutto di dubbi.

Condannata secondo le profezie basate sulla statistica della scienza, Ines sopravviverà a dispetto di tutto. La sua vita sarà a rischio, e l’altalena emotiva trasmessa alla storia così apparentemente piana ne fa un fiume di mulinelli, speranze e paure. Mai come in questo romanzo, l’autrice di Bestiario sentimentale è riuscita a raccontare di noi umani come appartenenti a una specie tra le specie, mentre cerchiamo di sopravvivere darwinianamente, sottraendoci alla fine. Non c’è troppa differenza tra uomini e colombi – sembra dire Nettel – non c’è distanza tra la culla di un neonato e il nido degli uccelli sul balcone.

Amore contro ragione
Siamo tutti dentro la stessa imperfezione, quella che rende nella vita di Alina e di Aurelio legittimo il terrore ma anche la sorpresa. In questo senso, La figlia unica è un romanzo naturale: la natura non conosce legge, in realtà, e di certo non è l’uomo con la sua arroganza razionale a poter predire se un neonato vivrà.
Per Guadalupe Nettel non è la ragione a fare dell’uomo una specie a sé, bensì quella pulsione alla luce capace di scavalcare ogni sentimentalismo per affermarsi come forza assoluta di vita.

L’amore, ci dice questo romanzo, va contro la ragione, ma è quanto ci fa davvero umani: «Poi ho pensato che l’amore si rivela spesso illogico, incomprensibile. Molti di noi fanno così quando si innamorano di una persona molto malata: di una persona che vive lontano; di una persona impegnata in una storia precedente, nella quale non c’è posto per noi. Chi non si è tuffato in un amore abissale pur sapendo che non avrebbe avuto futuro, aggrappato a una speranza fragile come un filo d’erba?».