Con questo suo libro recentissimo – ma sicuramente non ultimo – lo storico francese Serge Gruzinski rilancia con vigore e nuovi argomenti la tesi che lo contrappone allo storico indiano Sanjay Subramahniam: la centralità dell’Europa nella svolta dal Medioevo alla modernità. È una discussione molto pacata, dove i riconoscimenti personali non mancano, ma la posta in gioco è di grande rilevanza come ognuno può comprendere. Si tratta di rispondere alla domanda posta alle storiografie nazionali dall’allargamento dei confini avvenuto col processo definito con tanti termini diversi: globalizzazione, mondializzazione, World History e così via. Il campo di lavoro si è improvvisamente allargato e le questioni a cui gli storici si trovano a dover rispondere riguardano il senso della loro disciplina . Accusati di praticare una «storia egoista» (Subramahniam) o di ignorare grandissime fette di passato come il fallimento portoghese nell’Estremo Oriente (Gruzinski), hanno intanto beneficiato della rivoluzione informatica che permette loro di trovare fonti e bibliografia standosene comodamente seduti davanti allo schermo del computer. Grandi mezzi, ma un’incertezza di fondo sul senso del loro lavoro. Tra le due tesi contrapposte, resta la proposta italiana della microstoria a offrire lo strumento necessario per garantire lo statuto di verità all’indagine storica.
Serge Gruzinski, studioso cosmopolita, non è certamente nazionalista ma nel suo ricco e composito profilo intellettuale e nella ampiezza delle sue esperienze si riconoscono molte componenti di una formazione francese. Anche il tema centrale di questo libro recente – il tempo, anzi i diversi tempi del mondo – ha una genealogia francese. Fu Alexandre Koyré a renderci consapevoli della svolta fondamentale avvenuta con l’avvento della scienza moderna: quella dal tempo del pressappoco all’universo della precisione. Scavare in quello che Lucien Febvre e con lui la tradizione delle «Annales» definirono l’«outillage mental» continua a stimolare la curiosità degli storici e a procurare loro l’attenzione dei mezzi di comunicazione. È in questo solco che si muove stavolta Gruzinski, restando saldamente attestato nel campo in cui lavora da sempre. Ne è un bell’esempio questo suo libro di cui è recente la traduzione presso Raffaello Cortina editore: La macchina del tempo Quando l’Europa ha iniziato a scrivere la storia del mondo (Fayard 2017, ediz. it. a cura di Maria Matilde Benzoni, pp. XX-320, euro 28,00). Sul tempo si è passati ormai dalle riflessioni di Kant alla teoria della relatività di Einstein e alle ipotesi e ricerche più ardite su come percorrere avanti e indietro il canale temporale su cui lavorano i fisici: gli storici sembrano fuori gioco in materia, abituati come sono a fare uso del tempo come di una quantità assoluta, indiscutibile come l’altra gemella unità di misura – lo spazio –, le due realtà dentro cui ci muoviamo e siamo. Eppure basterebbe l’esperienza quotidiana a ricordarci quanto la nostra idea del tempo insieme a quella dello spazio sia mutata: l’epoca atomica ci ha familiarizzato col microsecondo e la pratica di massa dei viaggi aerei ci ha insegnato a tener conto della pluralità dei diversi tempi esistenti in uno stesso momento sulla faccia della terra. Al posto del meridiano di Greenwich imposto al resto del mondo dall’Inghilterra imperiale nel 1851 sono subentrate le ore di apertura delle borse asiatiche.
Eppure è stata l’Europa a imporre il suo tempo come tempo unico del mondo. E la prima tappa del processo fu lo scontro dell’idea di tempo dei conquistatori con quella delle culture indigene del Messico. Da una parte, scrive Gruzinski, c’è il tempo-freccia, in movimento costante dal passato verso il futuro, dall’altra c’è il tempo come misura occasionale e slegata di storie collocate in un disegno ripetitivo. È qui che i missionari avvertono la necessità di intervenire per la natura messianica dell’interpretazione della conquista. Dilatare e ridurre, «dilataçao», «reducir», sono i termini che definiscono il processo di scoperta dell’immenso mondo nuovo e sconosciuto e della sua integrazione nel contenitore unico della storia europea. Chi aveva collocato là quelle genti, quando e perché erano stati separati da noi? E che cosa significava nel disegno divino del mondo quella scoperta?
Quella di Serge Gruzinski è una proposta suggestiva e seducente, che nasce da una semplificazione necessaria e diventa ipotesi di lavoro molto produttiva. Naturalmente, bisognerebbe riconoscere che non mancavano analogie tra i due modi di concepire il tempo: quello che avevano in mente i missionari, principali mediatori culturali con le popolazioni americane , era ricco di complicazioni, con accelerazioni e ritorni, preannunci profetici e ripetizioni. Anche la loro cultura era immersa nel mondo magico della religione, anche il loro calendario non era quello inventato dai greci e trasmesso dalla cultura antica al Medioevo cristiano. Quel dato calendariale del 25 gennaio del 1524, giorno della partenza dei «dodici», secondo fra’ Toribio de Benavente detto Motolinia si doveva leggere all’interno del tempo mistico del calendario liturgico: era la festa di San Paolo, l’«apostolo delle genti», e segnava il tempo metastorico della ripresa della predicazione apostolica. Altri segni di un tempo preordinato da Dio il francescano li trovò nell’elenco delle sofferenze dei «pagani» americani, richiamanti le piaghe d’Egitto. E i ponti verso il passato biblico trovarono un punto d’appoggio decisivo quando la memoria dell’Antico Testamento fece accendere nella mente di Motolinia il collegamento tra Ioas, signore del Regno di Giuda e Acamapichtli, il primo sovrano mexica.
Qui si colloca l’appassionante pagina dell’interrogatorio dei testimoni da parte di Motolinia, a cui si intreccia quello dello storico Gruzinski concentrato sulle stesse fonti di cui si servì il francescano: le «pinturas», i codici pittografici antichi e quelli nuovi che il francescano fece comporre. Questo scavo dentro fonti in genere distrattamente collocate in una museificazione delle «meraviglie» della cultura mexica costituisce un capitolo di grande novità e interesse, una vera «microstoria». Vediamo all’opera un francescano esperto nell’esercizio dell’esame rigoroso per definizione, l’inquisizione, che si confronta con chi per essere vinto e soggetto al nuovo potere è per definizione attento a filtrare le sue affermazioni e a celare cose che potrebbero costargli la vita, come era accaduto al «cacique» di Texcoco, battezzato col nome di Carlos, processato e bruciato per apostasia. E così, nelle «pinturas» indie si fa evanescente fino a sparire quel monte Tlaloc, adorato come un dio dagli abitanti. Credenze radicate nelle culture della terra – ricorda Serge Gruzinski. Non diverse all’epoca quelle dei contadini europei coi quali la Chiesa avviava proprio allora un lavoro secolare di cristianizzazione.
Il caso delle «pinturas» mostra al lettore come il far entrare gli indios d’America nella macchina del tempo europeo riproponesse alla Chiesa lo stesso compito già assunto nell’antico impero romano: allargarne l’orizzonte a dismisura, abituarli a pensare in termini di storia universale. Gruzinski ha ben presente la vicenda antica: qui le sue pagine si riempiono di rinvii agli studi di Arnaldo Momigliano.
Però la pista del francescano Motolinia non porta lontano. Il dialogo del missionario e le «pinturas» non risolsero il problema. Quanto profondo e duraturo fosse il rifiuto della cultura india davanti al cristianesimo europeo lo ha raccontato un libro recentissimo di Macarena Cordero Fernàndez dell’università pontificia del Cile sulle «campagne» per sradicare le «idolatrie» lungo tutto il Seicento. Solo coi metodi dell’Inquisizione e con la forza militare vennero alla luce enormi quantità di idoli nascosti e finì sotto processo una fitta popolazione di maghe e stregoni di villaggio. Ma già nel Cinquecento il potere imperiale ispanico aveva affrontato la questione costringendo l’élite amministrativa india a redigere innumerevoli relazioni per rispondere a inchieste che imponevano di descrivere dati e cose dall’interno della cultura e del tempo unificato ispanico-cristiano. E così la narrazione di Serge Gruziski ci ivita a guardare l’altra faccia del processo di unificazione del tempo. È una parte che si apre con l’analisi dell’opera di Bartolomé de las Casas, che permette di riscoprire tutti i succhi culturali e i modelli storiografici del grande «apostolo delle Indie»: un giovane uomo nutrito di una ricca cultura europea di tipo umanistico. Fu attraverso di lui che prese posto nella concezione europea del tempo un’idea di quel mondo diverso e sventurato.
La conclusione dello storico è ottimistica per il passato: impossibile sminuire l’importanza di una «simile smisurata impresa di storicizzazione». Meno per il futuro: cosa fare di questa «riuscita colonizzazione delle memorie» e soprattutto cosa fare della «storia all’europea» oggi messa a rischio «dagli attacchi di una tecnocrazia europea che intende ‘ridurre’ (nell’accezione forte, spagnola e coloniale di ‘reducir’) la ricerca e l’innovazione ai propri standard»?
La conclusione, alta e vibrante, di Gruzinski, instancabile esploratore di mondi mentali e di realtà storiche, mostra come egli sia capace di offrire qui una prova maggiore dell’esercizio non di uno stanco magistero accademico su temi di sua conoscenza ma di una straordinaria testimonianza di impegno intellettuale e civile all’altezza dei problemi del nostro tempo. Insieme agli altri suoi libri questo più recente aiuta a riflettere su come quelle culture umane scoperte da europei allo scorcio del quindicesimo secolo entrarono da allora a comporre il caleidoscopio della storia mondiale, quello stesso caleidoscopio che fa parte oggi della nostra esperienza quotidiana. L’insegnante di Storia può raccontare quella vicenda avendo davanti a sé in una qualsiasi scuola europea studenti di tante culture, spesso in maggioranza di origine africana o asiatica o latinoamericana.
Ma l’insegnamento e la scuola sono oggi esposti al pericolo dell’imperante liberismo e della chiusura tecnocratica dei gestori del patrimonio europeo di storia e di cultura. Proprio davanti a questa minaccia, prendere coscienza dell’importanza di ciò che abbiamo ereditato dal passato, restaurarlo, rivisitarlo, allargarne gli orizzonti, appare condizione irrinunciabile e necessaria per reagire al pericolo di uno smarrimento del senso della nostra condizione nel mondo. E sono proprio gli italiani che appaiono oggi i più esposti a questo pericolo: ignoranti non solo della scienza medica e dell’importanza del vaccino contro il morbillo ma anche di quel diverso vaccino contro gli errori del passato che è la conoscenza della Storia, voltano le spalle alla grande tradizione del paese dell’umanesimo guidati da una classe dirigente che non perde occasione per dare prova della sua irresponsabilità nel trattare le cose relative al sapere storico come a quello scientifico. Basta un piccolo indizio a mostrare come lo studio della Storia oggi sia diventato da noi un fantasma nella formazione delle nuove generazioni. Una distratta, stupida «riforma» recente dell’esame di maturità l’ha reso del tutto marginale. Ora, lo studio e la conoscenza della Storia come promemoria degli errori ma anche delle conquiste irrinunciabili del passato sono il rimedio più simile al vaccino che conosciamo. Anche per questo la traduzione del libro di Serge Gruzinski è un atto meritorio.