Figlio della Germania orientale, nato nei primi anni Sessanta in una Dresda ancora segnata dai bombardamenti del secondo conflitto, enfant prodige nella scrittura della riunificazione, Durs Grünbein non ha mai smesso di produrre versi e prosa e, specie a partire dagli anni Zero del nuovo millennio, le sue opere si sono incalzate a getto continuo, con andamento torrenziale, mentre il conferimento di prestigiosi premi e riconoscimenti ne ha fatto un autentico «poeta laureato», conteso da università e istituzioni culturali.

Alla fine degli anni Novanta le sue raccolte poetiche approdarono da Einaudi, magistralmente rese da Anna Maria Carpi, in una linea di mediazione raffinata e attenta che attraversa i primi vent’anni del secolo nuovo. Dallo spazio della ricezione italiana, non rimangono esclusi i testi prosastici, gli scritti critici, i saggi. Una pietra importante, in questa lastricatura grünbeiniana che sembra non conoscere soste, è la silloge di saggi I bar di Atlantide, del 2019.

Archetipi e neurotrasmettitori
Le due più recenti tessere, entrambe in apertura dell’anno, sono costituite dalla raccolta Schiuma di quanti (Einaudi, pp. 197, € 14,50) e dalla miscellanea Il bosco bianco Poesie e altri scritti (Mimesis, pp. 99, € 12,00). Sulla traiettoria della poesia à la Valéry o à la Eliot che sta però di casa nel più immediato presente e si protende nella post-storia, Schiuma di quanti – che, sempre con l’originale a fronte, raccoglie poesie dalle ultime tre raccolte tedesche insieme a molti testi inediti, per poi confluire nella raffinata traduzione di Anna Maria Carpi – rilancia l’idea di un soggetto in transito nello spazio, insieme iperreale e postumo, di un residuale giorno dopo, dilavato dalle disgrazie del passato, stremato dalla pubblicità, fitto di persone addossate le une alle altre, dove tutto è in sovrabbondanza, dal cemento alla frutta.

Su questo terreno la poesia si fa ancora strada, articolata e cerebrale, attraversando nodi scientifici, per poi lasciarli di proposito insoluti, in un cartesianesimo poetico che non rinuncia allo sprazzo interiore, all’evocazione fulminea, al nesso fonosimbolico, allo spiraglio autobiografico. In questo paesaggio accatastato, spesso senza regola, l’«umanista misantropo» sempre in dialogo con il classico, poeta-filosofo che mai perde la fiducia di poter articolare il mondo, si tiene al proprio «cervello-ripostiglio» che processa il reale, «non importa che accada o chi governi».

In questo deposito di impressioni incrociano immagini quotidiane, abbrancate con presa sicura: una corsa in taxi per le vie di Roma, due motorini incastrati dopo un incidente, formiche in fila ai bordi della strada, camion bianchi in viaggio verso sud, un desiderio d’amore troncato dal cameriere che annuncia l’ultimo giro. Il tutto attraversato da riflessioni che lambiscono le scienze del cervello, i circuiti elettronici e la fisica quantistica, in un terreno che si dispiega tra l’archetipo e la neurologia, battuto sempre con stupore onnivoro, a tratti un po’ bulimico, e sospinto da una ricettività sismografica.

Il bosco bianco – curato con eleganza da Rosalba Maletta, cui si deve un’accuratissima postfazione che serve da bussola nel succedersi dei testi, e in generale nella scrittura di Grünbein – nasce intorno alla visita dell’autore alla Statale di Milano, a trent’anni dall’apertura del Muro e sulla soglia della pandemia. Il volume, incorniciato da un’introduzione di Elio Franzini e con testi tedeschi a fronte, contiene il discorso formulato per l’occasione e pubblicato con un titolo – Discorso di Milano – che ricorda i più ufficiali pronunciamenti e le allocuzioni più solenni, a sottolineare, se mai occorresse, la consapevolezza di un autore che si intende coscienza civile.

In queste pagine – sullo sfondo una topografia della città tra il concreto, il letterario e il cinematografico – Grünbein addita un paesaggio attuale dove il ricordo dell’autunno tedesco-orientale, e delle sue smanie di libertà, va in pezzi sotto i colpi di un presente riunificato, e reificato, nel segno della globalizzazione e del passaggio all’universo digitale. Segue una scelta di poesie, tutte inedite.

Un accento europeo
Nel poemetto Il 23 agosto 1939, aperto nella memoria di Mandel’štam e chiuso con il suicidio di Benjamin, l’autore traccia le linee di una filosofia della storia dove l’umanesimo si stravolge in un fascismo 2.0, cadendo a strapiombo sui profughi, gli sbarcati, i respinti del presente.

Di seguito, altri istanti poetici, su tutti Il bosco bianco, suggestiva immagine del Duomo con le sue guglie. La voce che attraversa queste prese di parola ha un accento europeo e cosmopolita, classico e moderno nello stesso tempo, che guarda dentro il terzo millennio, sentendosi erede della Weltliteratur goethiana e, insieme, contemporaneo di Greta Thunberg.