Francis Gruber

 

«Eravamo in 21, ho contato, davanti alla tomba aperta, con il cumulo di terra chiara e la bara calata con l’aiuto delle corde». Il 2 dicembre 1948, nel piccolo cimitero di Thomery, alle porte di Parigi, una folla minima si era ritrovata per dare l’ultimo saluto a Francis Gruber. Tra quei ventuno c’era Louis Aragon. In una piccolo, commossa cronaca per «Les Lettres françaises» avrebbe reso onore all’amico: «Così si sono davvero svolti i funerali di Francis Gruber che è stato uno dei grandi pittori di questo tempo, quando tutti i valori si sono fatti tanto confusi e ogni giudizio oscurato. La realtà per lui era come una bambina magra e nuda in mezzo al bosco».
Non sappiamo se tra quei ventuno ci fossero anche Diego e Alberto Giacometti, legati a Gruber da grande amicizia: Alberto ne avrebbe disegnato la semplicissima tomba in pietra. A Parigi lavoravano e vivevano a poche centinaia di metri l’uno dall’altro, nel XIV Arrondissement: Gruber in Villa d’Alésia, Giacometti nella mitica stamberga di rue Hyppolite Mandron. Non sappiamo molto della loro relazione, ma una lettera scritta da Alberto all’amico dall’esilio ginevrino durante gli anni della guerra lascia trapelare l’intensità «militante» di questa amicizia: «Rimpiango ogni istante questi anni che non ho potuto passare con voi tutti, spesso questa idea mi è difficile da sopportare». Li univa una parallela, irriducibile adesione alla realtà, totalmente smagrita e svuotata di ogni carico retorico o ideologico.
Tra di loro, di radicalmente diverso c’è stato il destino. Gruber, morto giovane ad appena 36 anni, nonostante il successo, la stima raccolti, e l’intensa attività espositiva messa a segno in vita, sarebbe entrato in un inspiegabile cono d’ombra da cui ancora oggi fatica a uscire. Se in Italia trovava spazio nell’«Arte Moderna» a dispense edita da Fabbri e diretta da Franco Russoli (1967), e nella mostra curata da Gianfranco Bruno sulla Ricerca dell’identità (1974), in Francia ancora nel 1989 veniva ignorato dalla Larousse delle arti, pur diretta da Michel Laclotte. Sono Giovanni Testori in Italia e George Baselitz in Germania ad accorgersi della sua grandezza: Testori era stato folgorato da Gruber già nel 1946 in occasione della mostra sulla Pittura francese d’oggi a Ca’ Pesaro, e ne aveva presentato una scelta di opere alla Galatea di Torino nel 1967. Baselitz invece lo aveva scoperto con l’amico e sodale di avventure artistiche Eugen Schoenbeck a Parigi a inizio anni sessanta. «Eugen ed io cercavamo una legittimazione nella storia dell’arte rispetto a ciò che facevamo», ha raccontato Baselitz in un’intervista. «Solo degli outsider potevano funzionare. Questo interesse per i marginali si spiega anche con il fatto che tutto ciò che era ufficiale non faceva al caso nostro: noi eravamo in una situazione diversa e Gruber arrivava al momento giusto».

Sia Testori che Baselitz avevano collezionato l’artista francese: i quadri del critico italiano sono poi stati venduti, invece l’artista tedesco conserva tre opere importanti nella sua casa di Derneburg, tra le quali l’Autoritratto del 1935. Baselitz nel 1977 aveva spinto l’amico Johannes Gachnang, direttore della Kunsthalle di Berna, a organizzare una personale di Gruber, ancora una volta un’iniziativa partita fuori di Francia (la mostra poi venne portata anche al Musée d’Art Moderne di Parigi). Compulsare quel catalogo con una sobria copertina rossa è come assistere a un autentico disvelamento: gran parte delle opere sono infatti stampate in bianco e nero su carta lucida. Emergono così l’esattezza, la determinazione, la nudità e la grazia che fanno di Gruber un artista esistenzialmente in bilico, ma intellettualmente sempre presente a se stesso. La sua è pittura febbrile, folgorante nelle soluzioni, dai segni taglienti, psichicamente intensa; ma allo stesso tempo è pittura che respira grazie a una luce tesa, capace di spalancare spazi dentro le tele.
Gruber era nato con il nome di Franz, il 15 marzo del 1912 a Nancy. Un nome alla tedesca, poi addolcito in Francis, che segnala la sua matrice in bilico tra Francia e Germania. Suo padre Jacques era un grande maestro vetraio, esperto in un’arte applicata che non poco avrebbe influenzato Gruber: una delle sue prime opere è proprio una vetrata con una Crocifissione (in realtà sembra molto più una Deposizione), datata 1932, «opera che non rivela nessuno sforzo e nessuna fatica nel sistemare entro una determinata tecnica il proprio tragico incastro figurale» (Testori).
Nel 1916 la famiglia si era spostata a Parigi, già al 10 di Villa d’Alésia, che sarebbe rimasto l’indirizzo di tutta la vita. Francis studia all’Académie Scandinave, una scuola che riscosse successo nei suoi dieci anni di attività, tra 1926 e 1935. Vi insegnavano artisti nordici e francesi, senza dogmatismi, ma con una propensione al figurativo. Tra i compagni d’accademia trova Pierre Tal Coat e Vieira De Silva, ma è con Francis Tailleux che inizia un’amicizia dal sapore militante. Gruber soffriva d’asma e quindi per lunghi periodi era costretto a lavorare in casa. Tailleux lo ricordava arrivare i giorni della verifica con la macchina del padre stracarica di tele, «le più grandi legate sopra il tetto».
Nella Parigi della stagione post-avanguardie la figurazione riprendeva vigore con accenti diversi e senza mai codificarsi dogmaticamente: è la Parigi di Soutine e del giovane Balthus, amico pure lui di Gruber. Per Gruber la figurazione è una scelta di campo che si pone prima di ogni possibile dibattito. Grazie anche all’autorevolezza del padre, egli inizia presto a esporre ai Salon d’Automne, raccogliendo ottimi consensi. Nel 1935 una sua opera viene addirittura acquisita dallo Stato per le raccolte del Palais de Luxembourg: una Natura morta con pesci, oggi conservata al Centre Pompidou.
È l’anno in cui incontra Louis Aragon e si iscrive al movimento da lui fondato, l’Aear (Association des écrivains et artistes révolutionnaires). Il cuore di Gruber batte a sinistra, tanto che nel dopoguerra si iscriverà anche, per un breve periodo, al Partito comunista francese: nel 1942 un suo quadro viene censurato dagli occupanti tedeschi. Nell’Omaggio a Jacques Callot, oggi al museo di Nancy, aveva infatti inserito un elogio di Carlo IV di Lorena, che era una sorta di messaggio cifrato a favore dell’altro Carlo di Lorena, cioè il generale De Gaulle. Callot è un punto di riferimento costante per Gruber. Nato pure lui a Nancy, artista pure lui dotato di un immaginario a ponte tra Francia e Germania, per Gruber ha rappresentato una sponda provvidenziale. Da Callot assorbe quell’energia anarchica che gli permette di inglobare e rivitalizzare gli input che rifluivano dalla cultura surrealista: non più emersioni dell’inconscio, ma schegge di una realtà la cui follia preludeva alla follia imminente della guerra.
In questo modo la figurazione per Gruber si connota di una dimensione politica, pur nel segno di una radicale e anche dolorosa singolarità. «Bisogna da una parte cercare nella solitudine di riscoprire il mondo e dall’altra possedere un mestiere che renda capaci di trascrivere le nostre scoperte», spiegava a René Guilly, in un’intervista per «Combat» nel 1948. C’è tutto Gruber in questa «lezione di metodo» testimoniata poche settimane prima di morire. Innanzitutto la solitudine come condizione concreta di vita, che lo porta anche ad allontanarsi dalla moglie Georges e dalla figlia Catherine: una solitudine che però non si risolve mai in ripiegamento dal punto di vista artistico, al contrario origina una febbrile e incessante apertura alla realtà. E poi il bisogno – un bisogno che ha l’ineluttabilità di un destino – di trascrivere nel modo più lucido e preciso possibile («evito l’originalità, è troppo pericolosa») ciò che si è scoperto.
Il «mestiere» per Gruber è quello insegnato da Cézanne («La vérité en picture»): nel 1935 si era messo sulle sue tracce andando in Provenza e dipingendo anche la Sainte-Victoire. Ma Cézanne, nel segno di quella matrice gruberiana in bilico tra Francia e Germania, fa i conti con la visionarietà di Grünewald: la riproduzione dell’altare di Issenheim stava appesa nel suo studio, come testimoniato da tutti quelli che vi erano stati. La pittura di Gruber si presenta così come una lucente allucinazione, intessuta di segni inferti come ferite; ma in superficie affiora con la nitidezza splendente dei vetri da cui era partito. Gruber ricorreva spesso a essiccanti, velature e lacche. Questo spiega l’affiorare di craquelures sulla superficie pittorica di tanti suoi quadri. Sono microfratture nel colore, specie là dove il colore è più smagliante; quasi che la materia debba tendersi per aderire meglio alla sfolgorante magrezza della realtà.