Grossman, erano cornacchie, ma i soldati le credevano aerei
Novecento russo Dal periodo «social-realista», «Il popolo è immortale», romanzo pubblicato a puntate nel 1942 sul giornale dell’Armata Rossa «Krasnaja Zvezda»: da Adelphi
Novecento russo Dal periodo «social-realista», «Il popolo è immortale», romanzo pubblicato a puntate nel 1942 sul giornale dell’Armata Rossa «Krasnaja Zvezda»: da Adelphi
Nell’immaginario collettivo le vicissitudini sul fronte orientale della Seconda Guerra mondiale si identificano anzitutto con le evidenze visive fornite da fotografi sovietici come Evgenij Chaldej o Dmitrij Baltermants. Le loro sono inquadrature inevitabilmente sfocate, dove le sagome scure, impersonali, quasi spettrali dei soldati sembrano essersi impresse sulla pellicola solo per un attimo prima di dileguarsi, in un’involontaria allusione alla caducità del loro destino. Se queste silhouette in rapido dissolvimento di anonimi combattenti hanno acquisito di recente contorni più nitidi è anche merito del poeta e traduttore inglese Robert Chandler, che da decenni ha intrapreso un certosino lavoro di scavo negli archivi di Vasilij Grossman, concentrandosi soprattutto sulla sua opera «social-realista», a lungo negletta. Ultimo tassello di un simile recupero della produzione dello scrittore ebreo-ucraino antecedente a Tutto scorre, è Il popolo è immortale, romanzo pubblicato a puntate nel 1942 sul giornale dell’Armata Rossa «Krasnaja zvezda» e ora proposto da Adelphi nell’ottima traduzione di Claudia Zonghetti (pp. 285, € 20,00). In queste pagine scritte pressoché in presa diretta i soldati di Chaldej o Baltermants, eternati spesso di spalle, sembrano di colpo assumere fattezze inequivocabili, se non addirittura voltarsi a fissare l’obiettivo, come per interrogare la nostra coscienza di posteri.
Quest’effetto di subitanea individualizzazione discende innanzitutto dallo stile icastico di Grossman, tutto proteso a far vedere ciò che altrimenti rischierebbe di restare inaccessibile alla percezione dei lettori o di venir sostituito dalle immagini opache della retorica. Sarebbe forzato sostenere che Grossman fosse esente dall’uso di stereotipi; tuttavia, nell’assolvere coscienziosamente il mandato sociale imposto all’epoca, pare affidarsi a quell’ «onnipotente dio dei dettagli» che Boris Pasternak invocava in una poesia di «Mia sorella la vita». Che si tratti della città di Gomel’ in fiamme riflessa nella pupilla “lacrimosa e straziata” di un cavallo agonizzante, oppure dalle gocce che scivolano sul mento di un soldato intento a bere dell’acqua dall’elmetto, Grossman attinge a quel repertorio di schegge infinitesimali di guerra che andava raccogliendo nei suoi taccuini fin da quando nell’agosto del 1941 aveva raggiunto il fronte. E questo perché, come scrive in Il popolo è immortale, le impressioni degli avvenimenti bellici, «forti come poche altre per un essere umano», finiscono fatalmente per obliterare «la pace eterna della natura», anche laddove quest’ultima per puro caso sia uscita indenne dall’opera di devastazione dell’uomo.
Così i combattenti in prima linea scambiano le «nuvolette leggere che solcavano il cielo per le scie dei proiettili della contraerea, i pioppi lontani per le colonne alte e nere di fumo e terra sollevate dalle bombe», le cornacchie che si staccavano dalle cime degli alberi per caccia in formazione sparsa. Tant’è vero che il commissario politico Nevtulov, in uno di quegli sbotti repentini di schiettezza che contrassegnano le pagine migliori di Grossman, osserva: «Accidenti a loro, le cornacchie non dovrebbero poter volare prima di un attacco tedesco». Altrove, in passaggi più distesi, la sovrapposizione fra primigenio e umano, innocenza e violenza, assume tonalità decisamente più neutrali e giocose, come nella descrizione dello Stato maggiore, provvisoriamente accampato in una foresta. Qui le scrivanie sono disposte sotto noccioli frondosi, gli scoiattoli tirano le ghiande in testa alle dattilografe e su un ceppo basso coperto ricoperto di funghi troneggia «un normalissimo apparecchio telefonico moscovita con il suo moscovitissimo squillo».
La guerra per essere rappresentata esige dallo scrittore la creazione di immagini radicalmente nuove, e Grossman persegue quest’obiettivo consapevole che la sua vena di autore è assimilabile – parole sue – a quella modesta del fornaio, non certo a quella raffinata dell’orafo. Ovvero che alle preziosità talora oscure della letteratura modernista occorre anteporre una prosa in grado di trasmettere in modo inequivocabile la verità del reale. E per Grossman questa realtà sarà sempre quella presente, con tutte le sue contraddizioni – significativa a tale proposito fu la sua polemica con Maksim Gor’kij che nel 1934, dopo aver letto il suo romanzo d’esordio Glück auf!, lo esortava a focalizzarsi non sui contrasti attuali, bensì su quella necessaria, perfetta realtà futura che il socialismo stava costruendo.
Se a conflitto terminato l’aspirazione realista di Grossman si incarnerà nella dilogia epica di Stalingrado (scritta con più di un riferimento a Tolstoj), Il popolo è immortale – che riferisce invece dei primi terribili mesi di guerra e della precipitosa ritirata sovietica sotto l’urto dell’attacco tedesco – si confronta piuttosto con le esigenze della letteratura agit-prop: nell’opera del «compagno scrittore» i soldati che lo leggevano sul giornale loro destinato dovevano trovare sì una raffigurazione realistica dei loro sforzi, ma anche la certezza che non fossero vani. Da qui la centralità attribuita alla figura del commissario politico Sergej Aleksandrovič Bogarëv, marxista tutto d’un pezzo, per cui la dialettica rivoluzionaria è stata «un buon viatico per una guerra che ha visto franare le culture più antiche d’Europa». E che non potrà che essere vinta – questo nel 1942 Grossman non poteva saperlo, ma lo lascia comunque trapelare – da una compagine multiculturale estranea alle divisioni fra Stati nazione qual era per l’appunto l’Unione Sovietica. Se la campagna del 1812 contro Napoleone era stata la risposta di un popolo singolo, quello russo, nei confronti dell’aggressore straniero, qui, pur nel quadro di un’invasione analoga, ci ritroviamo di fronte a qualcosa di completamente diverso: «Non erano i singoli individui a darsi da fare: il georgiano magro che spingeva le munizioni nella canna, il tartaro robusto e basso che le trasportava, l’ebreo che correggeva la direzione, l’ucraino con gli occhi neri addetto al caricamento, il famoso maestro puntatore Morozov; erano tutti come un sol uomo».
Agevolmente interpretabile in chiave post-coloniale (il russo Morozov non solo svolge il compito più cruciale per un artigliere, ma è anche l’unico a essere indicato con il cognome…), questo brano è esemplificativo della prospettiva ideologizzata in cui Grossman si muoveva con estremo acume nel 1942. Dal punto di vista della committenza statale, Il popolo è immortale era un prodotto perfetto: da una parte rinfocolava il giusto sdegno dei soldati declinando in tutte le possibili forme il paradigma della terra violata e calpestata; dall’altra dimostrava come i particolarismi degli ufficiali e i loro differenti approcci all’arte militare potessero e dovessero essere armonizzati da una sapiente guida politica. Quella «guerra mai vista prima» andava vinta a ogni costo e Grossman all’epoca era ben lungi dai dubbi e dall’amarezza che l’avrebbero attanagliato in Tutto scorre.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento