Un continuo gioco quasi cinematografico tra campo lungo e dettaglio è quello che caratterizza la visione della mostra di Katharina Grosse e Tatiana Trouvé, ospitata a Roma presso Villa Medici fino al 29 aprile. Le numerose irregolarità, curata da Chiara Parisi per l’Accademia di Francia, alterna infatti opere il cui criterio di fruizione passa continuamente da una lettura più ambientale e architettonica, come i lavori della tedesca Grosse spingono a fare, all’analisi del minimo elemento scultoreo, come suggerisce l’opera della francese Trouvé. L’osservatore è quindi chiamato a muoversi non solo tra due scale dimensionali opposte, in frizione tra macroeventi visivi e microstorie, ma anche tra le scale di intimità differenti che esse implicano. La mostra, cioè, con le sue contrapposizioni emotive e dinamiche tra le sezioni, è costruita su questo continuo cambiamento, in una modalità che molto ricorda la musica barocca e la teoria degli affetti.
La prima sala apre con Somewhere In The Solar System e The Great Atlas of Disorientation della Trouvé, degli improvvisati tavolini realizzati combinando pezzi apparentemente in cartone e pezzi di libri. Come racconta l’artista, «poco importa se queste costruzioni sembrano instabili o se, al primo soffio di vento, rischiano di volar via. Non sono fatte per resistere al mondo ma per confondersi con esso, dal più vicino al più lontano». A una visione più attenta – anche se il desiderio più forte è quello di toccare la superficie dell’opera per poterne percepire la reale consistenza – si scopre che il materiale con cui le opere sono realizzate non è la precaria e volatile carta, bensì il più pesante e resistente bronzo. Sulle pareti, invece, come anche nella stanza successiva, una grande tela senza titolo, mollemente collocata come una semplice tenda d’arredo, ospita una macchia di colore verde, un rettangolo che Grosse ha impiegato come preambolo, una sorta di anticipo cromatico di quello che succederà dopo.
Come scrive la curatrice, «Katharina Grosse elegge la pittura, intesa come una membrana, a suo principale mezzo espressivo e adotta il senza titolo in modo ricorrente; Tatiana Trouvé sviscera le infinite potenzialità e le variabili del disegno per creare opere cui spesso attribuisce titoli densi di rimandi e di significati. La prima si affida alla potenza anarchica e imprevedibile del colore; la seconda alla seduzione dell’oggetto scultoreo ricontestualizzato».
La Cordonata medicea, l’imponente scala che conduce ai piani alti della residenza, è interamente occupata dalla monumentale Ingres wood, una sorprendente installazione della Grosse realizzata con i tronchi e le radici dei pini abbattuti che l’artista ha trovato nei giardini della villa (sono gli alberi che Ingres aveva fatto piantare durante la sua residenza all’Accademia Francese nel 1806-’11), che sono collocati in basso come se trascinati dal corso di un fiume. Sui legni tagliati e lungo tutte le scale rivestite di un drappo bianco, una pittura traboccante di colori, visceralmente libera, lisergica e dalla travolgente vitalità. Una pittura inclusiva ed estensiva, che tende ad annettersi tutto ciò che la realtà propone – come ad esempio testimonia anche la recente Rockaway realizzata negli Stati Uniti, in cui una casa in riva al mare, alberi compresi, è stata letteralmente coperta da colore – e che non abbisogna di altro se non di pigmenti e di uno spazio a due o tre dimensioni. Come osserva l’artista, «la mia pittura si prova con l’assenza di strutture lineari, la rottura delle causalità e l’equilibrio e la simultaneità di strutture che normalmente sembrano elidersi a vicenda». Accade così una pervasiva tabula rasa, che ha forse nell’ossessione di condurre quasi tutto alla dimensione visiva cromatica il suo unico limite.
Nell’ultima sezione la Trouvé allestisce una sorta di laboratorio dove fornisce un saggio scultoreo che mette in dialogo leggerezza, trasparenza e gravità. Les Indéfinis è una raccolta di oggetti collocati ironicamente in uno spazio impiegando dei vetri e delle vetrine, con i quali sono posti in relazione. Grazie al costante impiego di calchi – con i quali possono essere duplicati in bronzo manufatti familiari come scarpe, cerchioni di auto, sacchetti della spesa – l’artista attua una campionatura della realtà e una ludica risemantizzazione degli oggetti prelevati che simultaneamente stimola e trattiene l’osservatore, posto alla ricerca delle numerose irregolarità che il titolo della mostra suggerisce. Si crea un sottile gioco di relazione, dentro il quale il concetto di mimesi tende a sfumare naturalmente in finzione o in burla.