Aspettavamo da qualche tempo che l’opera di Franco Grignani fosse raccontata a tutto tondo, senza cesure tra l’artista e il grafico, il fotografo e il designer. Il merito va al m.a.x museo di Chiasso, dove Mario Piazza e Nicoletta Ossanna Cavadini hanno allestito una mostra (fino al 15 settembre) che documenta con rigore il suo percorso artistico e professionale lungo circa cinquant’anni, dai primi esperimenti fotografici negli anni cinquanta, alla scoperta dei molteplici linguaggi e maniere che, tra pubblicità e pura indagine estetica, sviluppa di un’originale ricerca grafica. Una ricerca lunga e determinata che avrà il suo picco nel periodo che va dall’immediato dopoguerra agli anni settanta. Per meglio intenderci, «i tempi – come li definì Argan – in cui si preferiva progettare all’essere progettati» e la «ricerca operativa» dell’arte richiedeva «una verifica teorica, così come la ricerca teorica esigeva una verifica operativa». Insomma, un momento in cui artisti e critici erano impegnati insieme verso un’analisi che non aveva nulla di «geniale», ma, come ancora dirà il critico torinese, si «accontentava di essere seria».
Cosa poi significasse questo «atteggiamento di serietà» in Grignani, al quale anche Piazza si ricollega nel suo saggio in catalogo (Skira), è presto detto. Per l’artista pavese è convinzione che l’arte richieda la massima concentrazione in chi la osserva. Una sua qualsiasi opera, spiega il curatore, «mette subito sull’attenti» perché sembra di trovarsi «di fronte all’assoluto». Tuttavia, la «grande serietà», quella propria di uno scienziato che «non ricerca lo stupore» ma solo «svela certezze», non chiarisce per intero il suo indagare nel mondo del visuale. È evidente che questo va oltre la razionalità scientifica della costruzione geometrico-matematica e si inoltra nelle leggi della psicologia della forma e in quella infinità di fenomeni che danno vita a ciò che Grignani chiamerà una «nuova realtà strutturale».
Ciò che lo ossessiona sono i meccanismi ancestrali che interagiscono tra l’occhio e la mente: i soli episodi visuali tesi ad ampliare il valore comunicativo dell’opera d’arte e concernenti «il mondo intracelebrale degli impulsi». Quanto poi il suo fare artistico non sia disgiunto dal suo lavoro di graphic designer lo evidenzia con precisione la mostra ticinese, che illustra tutte le fasi dell’indagine polisensoriale di Grignani, la quale va sempre intesa come risultato dell’osmosi tra il mestiere di grafico e di artista. Dall’inizio degli anni quaranta la pubblicità per i marchi Pirelli, Montecatini, Zignago, Necchi gli consente di realizzare quel «laboratorio sperimentale» che, come riferirà lui stesso, gli permetterà «l’osservazione e il controllo di una serie di fenomeni che difficilmente un artista avrebbe potuto individuare». È infatti dalla reazione dei lettori delle sue riviste («Bellezze d’Italia», house organ della Dompé Farmaceutici; «Pubblicità in Italia») che può calibrare nel modo migliore il linguaggio grafico. L’editoria diventa così l’«avamposto» privilegiato per perfezionare e affinare negli anni le tecniche della comunicazione perché quel «sommo bene» della grafica possa alla fine, come sottolineò Dorfles, essere utile per la nostra «educazione visiva». In questo campo il risultato più alto sarà raggiunto con la comunicazione istituzionale per l’industria tipografica Alfieri & Lacroix, per la quale dal 1952 e per circa un ventennio Grignani esegue «un bellissimo e solipsistico diario visivo» (Piazza) composto di una moltitudine di emozioni create da immagini e lettering.
Interessato come altri in quegli anni a tutto ciò che sono le oscillazioni, le aberrazioni, le distorsioni, le alterazioni della percezione ottica, Grignani, con meno enfasi di Vasarely, di Soto o di Cruz-Diez, giunge a comporre un palinsesto di tavole con il quale spiega come «solo la mente ci dà un collage di forme» e perché è la mente a definire «l’organizzazione dell’immagine». Nel suo glossario sono elencati i molteplici esempi con i quali si dà forma alla «spettacolarità visiva» attraverso processi percettivi molto complessi attivati da elementi grafici in bianco e nero, a volte colori o in rilievo. In alcuni casi questa forma non si esaurisce nella vista frontale, ma come, accadrà nel caso delle Strutture simbiotiche (1986-’87), invita allo sguardo di scorcio. «Nel mio spazio – scriverà Grignani alla fine degli anni ottanta – non esiste la prospettiva classica ma una dissonanza data dal rincorrersi di ipotetiche superfici che dal loro moto dinamico producono una plasticità non legata alla realtà fisica ma alla poetica della forma».
Il risultato finale del percorso analitico nell’arte concreta di Grignani è la grande superficie Sperimentale di disgregazione segnica (1952-’97). Collocata alla fine del percorso, ci arriviamo dopo una serie di opere che spiegano la metamorfosi che segni e linee hanno avuto grazie allo studio di incastri, ondulazioni, dissolvenze, rotazioni, permutazioni e dissociazioni. Possiamo considerarle tutte figure imprigionate al fondo da maglie strutturali che sembrano dirigersi verso un altro mondo, molecolare e organico, ma sempre rigorosamente controllato ed empatico. Se è possibile indicare l’autentico contributo di Grignani all’astrazione di tipo concreto non si può che circoscriverlo a questa tenace indagine verso «interpretazioni soggettive dove l’emozione crea una nuova visione».
A interessarlo sono le «realtà reinventate» anche se con il debito riconoscimento nei confronti sia della grafica costruttivista (Jan Tschichold) sia della «scuola svizzera» (Max Bill, Max Huber, Richard Paul Lohse). In fondo Grignani mette in pratica ciò che già era nell’aria dell’affermato studio pubblicitario milanese di Antonio Boggeri, con il quale collabora da esterno e per un decennio dagli inizi degli anni cinquanta. Come riferì il ticinese Bruno Monguzzi, convinzione di Boggeri era che nella grafica non bastasse la perfezione. La grafica svizzera paragonata a una ragnatela «era perfetta, ma spesso di una perfezione inutile». Solo una mosca che ne avesse «infranta la meticolosa costruzione» poteva renderla utile. Grignani a suo modo seppe, insieme a un manipolo di intelligenze creative, «desterilizzare il rigore», e in un periodo felice e irripetibile del capoluogo meneghino partecipare alla fusione di due culture: «quella svizzera, logica e costruttiva, e quella italiana, poetica e libertaria».