Come scriveva William Blake, «l’energia è un piacere eterno, e chi desidera, ma non agisce, genera pestilenza». E così era per Gregorio nonostante che intorno a lui ci fosse una costante pestilenza di vita spericolata e metadone, era proprio l’energia la sua forza naturale, di vita e poesia che lo ha sempre salvato. Anche quando stava per morire, come racconta alla Casa delle Letterature di Roma sua figlia Sheri Langerman Baird, dopo il post funerale di suo padre nel cimitero a Testaccio il 5 Maggio del 2001: «Era troppo malato, avrebbe voluto raccontarmi delle storie poetiche ma proprio non poteva. Era quasi incosciente, non rispondeva più e noi pensavamo che sarebbe morto in un giorno o due. Nel mezzo della notte io ero seduta al suo fianco e lui sdraiato nel letto mi diceva: per favore prendimi, prendimi… Stava guardando in alto e improvvisamente si è seduto dicendo ad alta voce: Chiama un fottuto taxi! Forse voleva andare al cinema». Proprio come nella sua poesia How not to die»(Come non morire).

Io sono la poesia che scrivo
«La poesia e il poeta sono inseparabili… non posso parlare di poesia senza parlare del poeta. Infatti io, come poeta, sono la poesia che scrivo». È l’inizio di una lettura alla radio di Gregory Corso del 1964. Erano ancora tempi di guerra fredda e gli Stati Uniti propagandavano i loro valori patriottici, la politica e lo stile di vita made in Usa. La radio era The Voice of America e per una singolare combinazione, quasi di condivisione beat, io ne ho trovato la trascrizione in un libro intitolato Contemporary American Poetry, acquistato nel 2003, in tempo di guerra vera, su una bancarella di Al Mutanabi, la via dei librai di Baghdad.

Era strano imbattersi nella poesia di Gregory Corso in Iraq dove, anche all’inizio del nuovo millennio, la truffaldina coalizione dei volenterosi della pace durevole voleva esportare la sua idea di supremazia occidentale. Però con tutte quelle librerie sotto i portici la cultura lì era universale, anche se in poco tempo sarebbe tutto precipitato di nuovo in un abisso di ingiustizia e di prodromi integralisti con auto bomba che avrebbero fatto 40 morti anche tra i librai di Al Mutanabi. Corso in quel libro diceva che «un poeta deve essere un guardiano della coscienza e anche quando c’è pestilenza, che è sempre presente, è l’uomo che guida il carro armato e spara il proiettile che uccide. La morte non è mai stata proprietà dell’uomo, è solo un pessimo affare puzzolente».

Paradossalmente in seconda di copertina sul libro delle Forum Lectures se ne garantisce la riproduzione in ogni forma e la diffusione ovunque nel mondo. E così Gregorio Nunzio Corso è finito pure a Baghdad… per raccontare la sua poesia: «Dai 13 ai 17 anni, ho vissuto con gli irlandesi tra la 99a e Lexington, con gli italiani tra la 105 e la terza, con due texani in fuga sulla 43, etc. Fino a 17 anni quando ho rubato e ottenuto tre anni da scontare nella prigione di Clinton dove un anziano detenuto mi ha regalato dei libri, I Fratelli Karamazov, I Miserabili, Il rosso e il nero, e così ho imparato che ero libero di pensare, sentire e scrivere». Tre anni nel carcere di Dannemora per aver rubato un’elegante giacchetta che gli serviva per fare bella figura. Nel carcere più duro dello stato di New York dove però non ha «servito il tempo ma si è servito del tempo» come gli aveva detto di fare quel vecchio.

«L’ultimo Beat», il film mai uscito
E nella prigione di Clinton, lui c’è tornato dopo quasi 50 anni per parlare di poesia con i detenuti, oggi quasi tutti neri, e rivisitare le celle dove già c’era stato lui. La visita era organizzata dalla produzione del film The last beat, un docu-movie avvolto nel mistero che non è mai uscito. Su internet c’è solo il trailer, con Ethan Hakwe che fa la parte del presentatore e racconta del ritorno di Gregory Corso, in Francia, Italia e Grecia, nel 1997 appena dopo la morte di Ginsberg. Non è ben chiaro il motivo della non uscita del film, a parte i generici motivi legali di copyright è probabile anche per alcuni motivi di contenuti poco convincenti e di non completa realizzazione. Su Facebook ogni tanto qualcuno ce lo mette ma è subito ritirato, in pochi l’hanno visto, tutti protestano ma il film non esce.

Una prima versione però è girata in alcuni festival in Europa e a Taormina, quando il festival era organizzato da Enrico Ghezzi, ha vinto il primo premio del pubblico. Il documentario che in ogni caso è ragguardevole, e dove c’è Corso è sempre poesia, inizia a Delfi sul monte Parnaso. Nella prima scena Gregory chiama ad alta voce «Homer… Euripides! Sono io il vostro amico Gregoire… Eumenides», scherza con gli dei e parla con la sua eco. Risponde all’antico poeta Esiodo «lui è pre-Socratico», continuando a chiamare «Heraclitus»… e l’eco che sempre gli risponde.

Lui è molto soddisfatto, ha in testa un colbacco scuro e in mano come sempre la sua bottiglia alcolica nascosta nella plastica di una finta aranciata, è lì per essere ammesso anche lui insieme a Dante, Shakespeare, Shelley e Kerouac in quel posto dove stanno gli spiriti dei poeti immortali. Una rivisitazione che continua a Parigi sulla tomba di Rimbaud e al Beat Hotel, a Venezia per una lettura in una libreria, a Roma sulla tomba di Shelley e a Campo de Fiori. Poi tornati a New York un colpo di scena,: il regista del film ritrova la mamma di Gregory Corso!
Io ricordo che lui soffriva molto per essere stato abbandonato quando aveva appena tre anni e di non sapere se sua madre fosse viva, ma i produttori del film sono riusciti a rintracciarla. Lui credeva che fosse tornata in Italia senza lasciare tracce e invece era lì vicino, non era mai partita. Era sempre stata lì, nel New Jersey, stava a Trenton che per fare un sillogismo paradossale è lo stesso posto dove non arrivarono mai i migranti del Lungo viaggio di Sciascia.

La scena nel film è comunque bella e commovente e, sorpresa a parte, tutto è ripreso nel film, lui era contento di aver ritrovato sua madre e i due si sono incontrati diverse altre volte con grande affetto, anche per andare a giocare ad Atlantic City. Sembra però che dopo un po’ Gregory si domandasse del significato e del senso del loro incontro, dopo aver vissuto 67 anni senza sua madre. Michelina che si era fatta un’altra famiglia lo aveva abbandonato, quasi dimenticato. Ironicamente è lei che gli è sopravvissuta, ripresa non molto discretamente nel film sul letto del figlio che muore. Per consolarlo fa un po’ la stupidina, scherza e gli chiede quante donne avesse avuto nella vita, se le vuole bene e c’è lui che bisbiglia appena qualcosa.

Certo che anche Gregory con i figli era originale, ne aveva avuti cinque con cinque mamme diverse, ma come dice Sheri con loro è sempre stato molto affettuoso, quando c’era. Dei suoi figli non parlava molto ma una volta a me ha detto che le sue case editrici mandavano i soldi dei diritti d’autore direttamente a loro.

Gregory Corso aveva paura della morte anche se ne celebrava i compleanni. Vivendo in un tempo non proprio lineare, saltava le epoche che per lui erano fatte di minuti, secoli e milioni di secondi. Secondo me nel film non lo hanno ritratto con molta delicatezza e sono molto tristi le scene con Gregory a letto mezzo morto.

Patti Smith molto affettuosa lo va a trovare e gli canta stardust memories, lo stesso Ethan Hawke, che fa lo storyteller in tutto il film (oggi avrà almeno quindici anni di più) gli porta il libro The happy birthday of death
Certo tutti allegri per consolarlo, lui però con appena un filo di voce, era contento ma chissà cosa pensava. La mia impressione, a parte i diritti, è quella di un film un po’ troppo commerciale, costruito e crudo specialmente quando fa vedere con troppa insistenza Gregorio molto malato in ospedale e a casa. In ogni caso Gregory non amava molto Reininger il regista del film. Bob Yarra dice che proprio lo odiava e anche la figlia Sheri Langerman, in un’intervista di Massimo de Feo su Alias nel 2001 descrive quelli della produzione come dei cialtroni per le terribili immagini di quando suo padre viene portato dall’ospedale all’aeroporto.

Anche io una volta ho avuto un’impressione negativa di quella storia del film, quando ho parlato con Gregory al telefono, da Campo de Fiori a New York. Stava già male nella sua casa di Horatio Street e scherzando mi diceva che quelli del film lo venivano a trovare ogni due o tre giorni. Non è che li stimasse molto, non appartenevano per niente al mondo dei beats, lui gli parlava di qualcosa e ogni volta loro lo pagavano con cento o duecento dollari e allora lui ci stava a continuare così.

Probabilmente anche per proseguire con la sua «sporca infermiera» così come chiamava l’eroina e poi il metadone. Con Gus Reininger, che è morto da anni, ci ho parlato una volta quando voleva usare alcune delle immagini che avevamo girato con Mimmo Cioffarelli a Roma (Gregory Corso walktalks 1989, il video è su Youtube). Per qualche ragione non se ne fece niente, ma sul film ho ritrovato tutta la bellissima e un po’ triste poesia «Coliche e vecchi amori a Roma» che avevamo pubblicato sul numero unico di un giornale underground The Taims. Gregorio l’aveva scritta per noi prima di partire da Roma e un certo barone – mi pare si chiamasse Nicolaci – aveva finanziato la stampa del giornale in 500 copie. La poesia è sul film, letta da Ethan Hawke, messa lì senza avvisare e pure sui titoli non c’è traccia di credits. Nel film americano non viene fuori tanto affetto per la città eterna, eppure Gregorio amava la sua Roma.

Partenza per NYC
«Dove my casa? Io no dente, no casa, no dio… solo io!». Erano le sue parole registrate con un radio-microfono che era sempre acceso durante le nostre passeggiate in-video (le trascrizioni sono ancora alla ricerca di una pubblicazione). Gregory seguiva con interesse la politica internazionale, in quel periodo c’era la repressione di Tienanmen in Cina, la rivoluzione di velluto a Praga e la caduta del muro di Berlino.
Era sempre informato, scherzava sul fatto che il Pci rinnegava la falce e martello, commentava le notizie internazionali e un giorno entrando nella chiesa di Santa Maria in Trastevere diceva «Comunismo e Cattolico finito, man… uno papa, due papa dov’è Gregorio?» per poi accendere numerose candele, una per ogni nazione con un problema, e una finale per l’America.

Lui Italiano-Americano si sentiva a casa sua anche in chiesa e quando dei turisti gli rimproveravano che quella non era casa sua, che non poteva parlare ad alta voce e sbirciare nei confessionali, lui subito rispondeva contrariato «oh man they fucked up… questa sì che è la mia casa!», e uscendo dalla chiesa, divertito dall’episodio, lo commentava con i ragazzi lì fuori e con una signora garagista trasteverina, che però lo cacciava via scambiandolo per un barbone. Allora si schermiva imitandola con un misto di ironia istantanea, dolcezza e rispettosa insolenza.

Un’altra volta su via Appia Antica: «Io 59 anni … lei venti/trenta… vuoi essere la mia futura ex fidanzata?», diceva a una cavallerizza che avevamo incontrato davanti alla casa di Cecilia Metella durante una nostra scampagnata insieme a Michael Sullivan, Francis Kuipers, Adriano Gangi, Mimmo Cioffarelli, Cristina Tiliacos, Piero Cefaloni. «No dente… solo io», ma veramente Gregory un giorno si è presentato dal vinaio a Campo de Fiori con il sorriso smagliante di una nuovissima dentiera che gli aveva regalato Francis Ford Coppola, che in quei giorni a Roma girava l’ultimo padrino. Arrivava a Campo de Fiori da Cinecittà con l’elegantissimo cappotto scuro che indossava sul set dove aveva fatto la comparsa nel ruolo di un mafioso e tornava alla vineria di Giorgio, che era la sua base.

Anche Coppola un paio di volte è venuto lì a giocare a monetine, e pure un altro Reggio, il suo grande amico Godfrey regista della trilogia Koyaanisqatsi, da Santa Fè in New Mexico. Gli anni di piombo erano passati da un po’, ma non troppo e ancora girava l’eroina, in motorino scippavano i turisti e ancora si rubavano le autoradio dalle macchine.

L’atmosfera a Campo era comunque molto internazionale, abbastanza divertente e si potevano fare incontri straordinari. Una volta però Gregorio è stato cacciato dalla vineria, con il divieto di rientrarci a causa di non so quale sgarbo. Lui per giorni non ha fatto altro che passare e ripassare lì davanti fino a quando è riuscito a farsi riammettere entrando in ginocchio con una rosa in bocca, per farsi perdonare da Roberta Reggio. Il periodo era difficile ma anche pieno di affetti e i quotidiani percorsi romani di Gregorio erano piuttosto regolari.

La mattina presto andava dalla parte di là a Trastevere, attraversando una specie di frontiera di fiume a Ponte Sisto, per la sua prima Ceres da Marcello a San Calisto, seduto nella saletta del bar per leggere tutto l’International Herald Tribune, solitario e quasi final. Poi magari a pranzo da Augusto in piazza de Renzi o al bar della Pace d Bartolo.

Nel pomeriggio al bar del Fico e verso sera dal vinaio a Campo de Fiori. Certo a quell’ora il tasso alcolico nelle vene era piuttosto alto, ma lui reggeva l’alcol molto bene e vederlo proprio sbronzo non era così facile. La sua energia lo aiutava e verso sera appena sentiva che ne aveva di meno, che poteva perdere quella lucidità che sempre gli brillava negli occhi, tornava finalmente a casa a scrivere.

Avendo io trovato una nuova casa sulla west coast de Roma… gli avevo prestato la mia al 54 di via dei Cappellari, e lui era molto contento della sua nuova sistemazione indipendente. Partendo poi per la Sicilia, sempre un po’ a grande velocità, prima di tornare definitivamente in America, mi ha lasciato diverse cose. Oltre alla sua macchina da scrivere e alcune bozze di poesie, mi ha consegnato 8 rollini di fotografie in bianco e nero che aveva scattato lui stesso, dicendomi che si fidava di me e che ne avrei fatto buon uso.

In quelle ultime settimane romane qualcuno gli aveva regalato una piccola Kodak Instamatic rossa. Era il suo punto di vista fotografico, ma era anche il modo per farsi ritrarre nelle osterie, davanti al vinaio, al bar del Fico, magari con Amelia Rosselli e molti altri amici, perfino fotografando un angelico compagno di buchi sull’argine del Tevere, con la siringa infilzata nel braccio, come in una famosa fotografia di Aldo Bonasia a Parco Lambro. Poi la partenza con Mimmo per la Sicilia, invitato da Antonio Presti a Fiumara D’arte, a Santo Stefano di Camastra dove è stato diversi mesi. Doveva scrivere sulla Stanza della barca d’oro l’opera d’arte chiusa in una grotta dell’artista giapponese Idetoshi Nagasawa.

Una grotta sperduta tra i monti Nebrodi che sarebbe stato possibile visitare soltanto dopo cento anni. Così lui la descrive in una bozza che ho trovato tra le cose che ha lasciato: «Dal materiale che non esiste/ Ci sono entrato per metà / E sono finito scendendo in una caverna/ Stanco, ho passato la notte in un hotel disfatto/ E ho sognato una casa finale lì/ Il fiume scorre secco verso il mare/ E una finestra apre il cielo/ Mi domando se mai vedrò volare una mucca porporina/ Qui in Sicilia, Dio, Cristo, Madonna/ Lei la madre di suo padre/ La figlia di suo figlio/ Altrove/ La divina stella rossa di Marx si affievolisce/ Molto tempo fa Xerxes sorvegliando le sue vaste divisioni gridò: in 100 anni non ci saranno più!»

«The Golden Dot» L’ultima raccolta
È il libro con la raccolta di tutti gli scritti inediti di Gregory Corso, di prossima uscita per New Directions. Allen Ginsberg descriveva il suo amico poeta così: «Un poeta aforistico e un poeta di idee. Quali poeti moderni scrivono con una chiarezza così concisa… un artigiano poetico, Corso è impeccabile, un’espressione perfetta di boom tang-a-lang. Fife feef! Toot! Schizzo veloce e forbici mentali affilate. Maestro di saggezza, genio americano dell’idioma antico e moderno, padre poeta della concisione». Lawrence Ferlinghetti di lui diceva che «la poesia di Corso era lanciata sul mondo come un tiro di dadi truccati».

Così Gregorio in vita, poesia e, spirito già prima di morire, percorreva le strade del mondo e i sentieri della mente con una energia insuperabile. Come dice di lui Edward Sanders: «con un energia di venti vite dove l’origine porta direttamente al monte Parnasso». La storia dei manoscritti di Gregory Corso viaggia nel tempo, bozze e poesie scritte con i caratteri di innumerevoli macchine da scrivere, anche su rotoli di telex come quelli recentemente ritrovati da Francesca Perti in un’altra valigia lasciata o dimenticata. Lui stesso racconta che «è da quando sono uscito dal carcere che ho iniziato a scrivere poesie però di cui non ho più memoria, erano diventate l’espressione della mia vita, avendo subito iniziato a perdere le poesie che scrivevo.

La prima volta è stato in una stazione di autobus a Miami in Florida dove ho perso le mie prime poesie dentro una grande valigia «in una proporzione di cinquanta a uno, una camicia in mezzo a un diluvio di poesie». Diverse volte è andata così, tra perquisizioni doganali e smarrimenti «perdendo più poesie di quante ne scrivevo», a Venezia come altre due volte all’hotel Chelsea di New York. Oppure come scrivono sull’Empty Mirror «Quando avevo bisogno di soldi, per comprarmi della droga o partire precipitosamente, vedi, io giusto le vendevo, magari adesso sono nelle università, mai pubblicate».

Il 2021 però dovrebbe essere un anno importante perché si avvicina l’uscita del libro The Golden Dot che George Scrivani e Raymond Foye stanno editando: «è la raccolta sulla quale il poeta ha lavorato per anni, quando finalmente ha ritrovato il suo tempo in Horatio Street nel West Village. L’aspetto positivo di quegli anni» come scrive Raymond Foye «è stato l’emergere di un mecenate: Hiro Yamagata, un artista visivo di successo dal Giappone.

Il suo stipendio mensile» (tremila dollari come mi ha detto Bob Yarra) «consentì a Corso di trasferirsi dall’appartamento di Richard e Irvyne Rogers, finalmente in una sua casa a Horatio St. 26 dove Corso per la prima volta dopo molti anni aveva trovato il suo spazio vitale… Corso aveva lottato con il suo manoscritto finale, The Golden Dot, negli ultimi vent’anni della sua vita. Ha attraversato innumerevoli visioni e revisioni, sia testuali che concettuali… Sapeva che sarebbe stata la sua ultima volontà poetica e testamento che, abbandonando un elaborato kit di strumenti stilistici, entrava in un rapporto diretto ed elementare con La Musa.

Dopo la morte di Allen Ginsberg aveva subito composto Elegium Catullus / Corso, per Allen Ginsberg. Modellato sull’ode funebre del poeta latino Catullo a suo fratello, mentre gli si siede accanto e si rivolge alle sue ceneri inespresse ‘alloquerer cinerem’ che Gregory alleggerisce con un ‘Toddle Loo’, il saluto che lui e Ginsberg usavano sempre. Come la famosa linea finale di Catullo ‘Ave atque vale’ (Salve e Arrivederci) che apre le porte dell’intero manoscritto.

Gli amici di Gregorio alla libreria The Rare Bookromm di New York
Un anno dopo il ritorno di Gregory Nunzio Corso negli Stati Uniti sono andato a trovarlo nella libreria «The rare bookroom» di Richard Rogers. Ero arrivato dalla Jamaica, da Montego Bay dove l’anno prima ero stato a girare con Emerson Gattafoni il Reggae Sunsplash dell’1989, di passaggio per qualche giorno da Las Vegas per una fiera internazionale di broadcasting. Con Gregorio ci eravamo sentiti al telefono e io gli portavo i saluti degli amici di Campo de Fiori, tutti scritti su un menù originale della trattoria da Francesco a piazza del Fico.
È stata un’intera giornata indimenticabile, un susseguirsi di incontri e situazioni fino a sera. Iniziando già presto la mattina, con il succo di pompelmo che già ce l’aveva Richard in frigorifero, la bottiglia di Absolut l’ho comprata io all’angolo di Greenwich Avenue, e così il tempo è passato veloce con grande allegria e contenuti letterari poeticamente beat. Ogni tanto arrivavano degli amici che frequentavano la libreria e a un certo punto è venuto a trovarci anche Julian Bees, nostro grande amico capo servizio in lingua inglese dell’Ansa a Roma e tutto si è ulteriormente e affettuosamente arricchito di attualità internazionale.

Qui il messaggio che Gregory verso sera ha scritto e mi ha dato da portare agli amici di Roma sperando di rivederli presto: «…Ciao amici, sono annoiato qui, mi sono fatto crescere una barba come il padre di braccio di ferro ma sto facendo un po’ di soldi, così posso tornare, specialmente adesso che la vineria resta aperta fino all’una, e ricominciare… To start all over again the bull shit, quando torno facciamo una festa, do questa lettera a Danello» (che ero io), Love Gregorio».