Quattordici degli attivisti di Greenpeace detenuti a Murmansk dalle autorità russe sono stati formalmente accusati, ieri, di pirateria. Tra questi Pavel Dolgov, Kieron Bryan e Camila Speziale. Sono, rispettivamente, il portavoce dell’organizzazione in Russia, un videogiornalista britannico e una volontaria argentina che ha anche passaporto italiano. Nelle prossime ore dovrebbero fioccare altri provvedimenti analoghi, se il copione di ieri, come sembra, dovesse essere rispettato.

Rischiano dunque l’incriminazione anche Denis Sinyakov e Cristian D’Alessandro. Il primo è un fotografo russo, contro la cui detenzione si è levata una campagna internazionale per la libertà di stampa, che potrebbe estendersi, ora, anche al caso di Kieron Bryan. Quanto al secondo, è il membro italiano dell’equipaggio della Arctic Sunrise, la nave battente bandiera olandese con cui gli ambientalisti, il 19 settembre, hanno ingaggiato una protesta contro una piattaforma petrolifera di Gazprom, fissata al fondale del Mar di Barents. È lì che Mosca, facilitata dallo scioglimento dei ghiacci, intende estrarre tanto oro nero quanto gliene verrà a mancare, nei prossimi anni, nei giacimenti sul continente, ampiamente sfruttati. Oltre ai giganti russi, Gazprom e Rosneft, il Mar di Barents ha messo appetito alle compagnie straniere. È il caso di Exxon e di Eni, a cui Mosca ha concesso nel 2012 licenze esplorative.

Insieme a più di venti colleghi, sui trenta a bordo della Arctic Sunrise, D’Alessandro era stato colpito nei giorni scorsi da una misura di custodia cautelare, della durata di due mesi. Il reato di pirateria prevede una pena fino a 15 anni.
Sotto certi aspetti la decisione del tribunale di Murmansk, la città portuale dove gli ecologisti sono stati condotti il sequestro Arctic Sunrise da parte della guardia costiera russa, stupisce. È che Vladimir Putin, commentando nei giorni scorsi la faccenda, aveva sostenuto che gli attivisti di Greenpeace non sono pirati, pur precisando che hanno infranto le leggi russe, così come la legalità internazionale. In virtù della tendenza dei togati russi a non ignorare i suggerimenti che vengono dall’alto, alcuni esperti avevano ipotizzato una rimodulazione – stralcio dell’accusa di pirateria e focus sulla sola violazione della sovranità marittima – dell’azione dei giudici di Murmansk. Previsione errata.

Se ne possono dedurre due letture. Da una parte, lasciando che i giudici confermino l’accusa di pirateria, Mosca può dimostrare che la sua magistratura, contrariamente a quanto si crede, non certo senza fondamento, è indipendente. Dall’altra – interpretazione meno forzata, anche se si resta comunque sul piano delle ipotesi – potrebbe usare la vertenza con Greenpeace come in un certo senso ha fatto con l’affaire Snowden, ossia invitando l’occidente a non perdere tempo in lezioni di democraticità (corollario di quella dottrina della «democrazia sovrana» che irrora il pensiero putiniano) e munendosi di una leva con cui condizionare, se possibile, i tanti faldoni dell’agenda mondiale: Siria, Afghanistan, Iran, scudo stellare, disarmo.

Greenpeace, da parte sua, continua a ribadire gli attivisti della Arctic Sunrise non volevano né requisire la piattaforma di Gazprom, né ricorrere alla violenza (i due presupposti del reato di pirateria), aggiungendo che la vicenda di Murmansk è la più grave minaccia subita dai tempi dell’affondamento, da parte dell’intelligence di Parigi, della Rainbow Warrior. Correva l’anno 1985 e l’imbarcazione di Greenpeace sostava nei pressi dell’atollo pacifico di Mururoa, contestando i test nucleari francesi. Al timone c’era lo stesso uomo che ha comandato, prima che scoppiasse il marasma, la Arctic Sunrise: Peter Henry Willcox.