E’ stato il più fertile scrittore del Novecento inglese, Graham Greene, ricco di passioni politiche e teologiche, giornalista e filmaker, radicato nella tradizione (scrisse anche una biografia del seicentesco conte di Rochester tradotta da Masolino d’Amico, Lord Rochester, 1958). Fu uno stringato stilista secondo le regole della Royal Society (1660) che aveva messo al bando gli aggettivi in favore della perfetta sequenza di Soggetto-Verbo-Oggetto, – perfetta anche per la macchina da presa. «Suppongo si possa dire che come la pittura di paesaggio era dietro a Walter Scott, così il cinema è dietro o avanti a me». Preparato a percepire il nuovo anche del secolo a venire, Greene si era recato in quei luoghi del mondo ove fosse in atto un dramma su cui sentiva oscuramente di essere chiamato a testimoniare, in nome di una fede nella fede stessa, anche se divisa e contraddittoria.
Ancora energico a ottantasei anni, Green, alto benché un po’ curvo, sottile, gli occhi grigi curiosamente trasparenti, parlatore incessante – così lo descrisse John Mortimer che lo intervistò per lo «Spectator» nel 1986 («I’m an angry old man, you see»). Mortimer era un amico, un affine, stessi studi, stesso stile upper class, un bizzarro e geniale «champagne socialist» che subito entrò in intimità. Si informò sui sogni, sul suo cattolicesimo gnostico, sull’amicizia con il vecchio Philby, la famosa spia doppiogiochista, sull’odiosa politica estera di Bush nella questione panamense, e ricordò certi scherzi ai danni di un povero romanziere … Fino ad arrivare alle domande che interessano anche a noi: «Cosa ti dà la spinta a cominciare?» «Leggo sempre un libro di Henry James. Mi mette voglia di scrivere, penso che ne valga la pena». Meno Conrad e più Stevenson di cui ammirava soprattutto «la descrizione di una azione molto più difficile dello stream of consciouness. Neanche un avverbio! Se indovini il verbo giusto non c’è affatto bisogno di avverbi … gli orrendi avverbi».
Un altro amico, Anthony Burgess trovò che avesse ancora l’aria di un giovane delinquente, e lui ne fu contento. Il delinquente scrittore aveva rubato tanto dalla vita degli altri, ne aveva fatto un tesoro, una bibbia laica per il popolo dei suoi lettori. Diverso il ricordo di Martin Amis che lo intervistò nel 1984. Amis, molto più giovane, ne aveva già un’idea tratta dai suoi libri, «freddo, sfuggente, quasi sinistro» e non riconobbe tanto la grandezza del maestro quanto l’immobilità di quel mondo in cui il gioco delle combinazioni gli appare sempre prevedibile, i personaggi-chiave sempre gli stessi necessari alla parabola greeniana. «Greeneland non cambia mai». Ma di ritorno al suo hotel lo attendeva una scena drammatica: un inserviente era stato decapitato da una spranga. Una morte alla Greene, appunto, cruda e impietosa, quando ingiustizia è fatta e Dio misteriosamente ha collaborato a quel fine.
Pochi hanno saputo come Greene riuscisse a trovarsi nel punto giusto al momento giusto, quello politicamente e umanamente più scottante, più ulceroso, più inaccettabile: Vietnam, Cuba, Congo, Haiti… I suoi grandi romanzi, già pubblicati da Mondadori, tornano oggi in una veste traduttoria nuova per la generosa iniziativa di Sellerio. Sono in libreria, entrambi a cura di di Domenico Scarpa e nella traduzione del bravo Alessandro Carrera, Il treno per Istanbul (con una nota di Antonio Manzini, pp. 352, € 14,00) e Il console onorario (con una nota di Alessandro Baricco, pp. 445, € 15,00). Stainboul Train fu scritto in breve tempo dal gennaio al luglio del 1932, sette mesi per 76.000 parole, la rapidità della scrittura si conformava a quella del treno, l’esotico Orient Express. Il racconto di viaggio in diligenza suggeriva precisi elementi strutturali: pochi personaggi in un luogo chiuso, avventure e disavventure, innamoramenti, pericoli, conversazioni erratiche, finale variabile – una strategia già nota, ma capace di far voltare pagina in fretta a lettori ansiosi. Il giovane autore non ancora trentenne (era nato nel 1904) si era già messo alla prova in tre romanzi di scarso successo, scritti dal ’29 al ’31 (The Man Within, The Name of Action, Rumour at Nightfall). Con il nuovo romanzo ferroviario voleva agganciare un successo di critica e di pubblico. E l’ottenne: 21.000 copie vendute in Inghilterra, 4.300 negli Stati Uniti, dove uscì con il titolo Orient Express, e un contratto con la Twentieth Century Fox per 7.500 dollari. Sulla scorrevole narrazione orizzontale aveva operato un sapiente maquillage modernista: sogni, allucinazioni, ricordi, specchi, immagini balenanti sui vetri appannati si addensano nella nube malvacea sospesa come una minaccia sui viaggiatori. Oltre i vetri scorrono fugaci scorci di luoghi industriali, pioggia, nebbia, fumo, l’immancabile gru, oppure la desolata campagna da cui emergono facce attonite di contadini, sgarbati controllori, arresti, fughe nell’aria fredda, la vile esecuzione di un politico.
Greene si è anche divertito a spese di un personaggio trafugato da un racconto di Ronald Firbank: la rabbiosa giornalista lesbica a caccia del triste e tormentato politico. E da Firbank prende anche il discorso diretto libero: frasi anonime che galleggiano in aria nei vagoni semiaddormentati. Non resiste a mescolare alla folla dei viaggiatori semplici, come li avrebbe chiamati Sterne, il viaggiatore-romanziere Mr. Savory che ha una teoria in proposito. «I film, pensò Savory, avevano insegnato una cosa all’occhio: la bellezza del paesaggio in movimento, come un campanile si muoveva dietro e sopra gli alberi, come sprofondava e s’innalzava insieme al passo diseguale dell’uomo, e l’incanto di una ciminiera che svetta verso le nuvole per poi scomparire dietro altre ciminiere. Bisognava comunicare con la prosa questo senso del movimento, e ne sentì la necessità con tale urgenza che avrebbe voluto avere sottomano carta e penna finché gli durava l’ispirazione».
Greene nascondeva sotto maliziosi undestatement il suo io di romanziere di successo e cattolico gnostico (come detto), occasionale finanziatore di monaci Trappisti e guerriglieri di El Salvador. In The Honorary Consul del 1973 compare un altro scrittore, il dottor Saavedra, in completo grigio perla, scarpine lucide, esigente, responsabile, un concentrato di luoghi comuni come la sua enorme credenza di mogano antica, stipata di tutti i suoi possessi. A lui Greene fa confessare il suo stesso cruccio: «Ma, non so come, il señor Fortnum (il console onorario) si rifiuta di prendere vita. Ho dovuto cancellare praticamente una parola sì e una no». Anche l’autore ci fa sapere: «L’origine di questo romanzo, scritto tra il 1970 e il 1973, è nella cantina dell’inconscio»; fu molto difficile portarlo alla luce, e «solo all’ultimo capitolo mi sono finalmente ritrovato nell’aria libera». La storia gli era stata imposta dalle circostanze. Greene visitò Corrientes per due volte, nel ’68 e nel ’70, una città tranquilla dove di solito non succedeva nulla. Ma, racconta Scarpa, solo nella prima settimana si registrò «il rapimento di un console paraguayano (preso per sbaglio al posto dell’ambasciatore dello stesso paese), l’espulsione di un prete terzomondista dalla sua parrocchia per decreto dell’arcivescovo (con immediata protesta del barrio che rivuole il suo prete), l’arresto del medesimo arcivescovo (non certo per aver espulso il prete)…». E in rapida (inesplicabile) successione, un omicidio, una bomba ritrovata inesplosa, un’intera famiglia che si suicida lanciandosi con l’auto nel Paranà. Per una chiesa terzomondista, occorreva una parabola in cui la grazia ricomponesse il disegno divino, e – come raccomandava Flannery O’Connor, cattolica e romanziera lei stessa – «quando l’opera giunge al termine deve perdurare quel senso del Mistero che nessuna formula umana può liquidare». E quell’effetto, Greene lo ottiene nella straordinaria scena au ralenti in cui i due antichi amici in punto di morte, lo spretato e il laico, nel subitaneo silenzio delle armi, si scambiano in un sussurro la parola sacerdotale: «“Mi dispiace … Chiedo perdono …” “Ego te absolvo” mormorò il dottor Parr nel lampo di un ricordo. Voleva ridere, per dimostrare a León che stava solo scherzando …». Greene ha scritto un romanzo di trasformazione in cui il cinema ha prestato i suoi effetti alla pagina, la disperazione si è trasformata in miracolosa speranza, l’idea cattolica sacramentale della vita umana ha sorretto lo scrittore. Nella storie di Corrientes c’era già scritto il nostro presente.