Il 24 maggio, un terremoto di circa 6.5 di magnitudo della scala Richter ha colpito l’isola di Lemno, ubicata nella parte settentrionale del Mar Egeo, a poca distanza dalle coste della Turchia. Meno «famosa» della vicina Samotracia – dove nel 1863 riaffiorò la maestosa Nike esposta al Museo del Louvre – Lemno non manca certo d’interesse archeologico e, ancor prima, di richiamo alla mitologia. Il nome dell’isola deriva, infatti, da quello della ninfa con cui giacque Efesto dopo la caduta inflittagli dall’irato Zeus. A Lemno approdarono anche gli Argonauti e sulle sue sponde visse in solitudine per dieci anni Filottète, l’eroe protagonista dell’omonima tragedia di Sofocle. I trentacinque secondi di scossa non hanno risparmiato il Museo di Myrina (capoluogo dell’isola), provocando un disastroso «effetto bowling» tra i reperti conservati nelle vetrine. Pur in assenza dello stato di calamità, alle porte della stagione turistica, gli abitanti di Lemno temono di perdere una delle loro più preziose attrattive.

Da quasi novant’anni, sull’isola si avvicendano le missioni di scavo che fanno capo alla Scuola archeologica italiana di Atene. Sul finire degli anni ’20, la scoperta – effettuata nel 1884 dagli esploratori francesi Cousin e Durrbach – della stele di Kaminia spinse l’allora direttore della Saia, Alessandro Della Seta, a rivolgere le sue mire di «archeologia patria» a Lemno. Su quell’oggetto lapideo era incisa un’iscrizione in una misteriosa lingua anellenica, che presentava delle analogie con l’etrusco. In realtà Della Seta, che nel 1939 venne rimosso dal suo incarico in applicazione delle leggi razziali fasciste, non giunse mai a trovare le prove di un rapporto tra gli Etruschi e i «Tirreni» di Lemno ricordati da Tucidide. Eppure, molte furono le scoperte che si susseguirono, anche dopo la guerra, nei siti di Hephaistia, Poliochni e Chloi.

Proprio in quest’ultima località, fu portato alla luce un santuario che rivelò l’esistenza di un culto dedicato ai Cabiri, antiche divinità indigene, investite poi di un’identità greca quando – nel V secolo e sotto la guida di Milziade – gli ateniesi s’impossessarono di Lemno e della sua ricchezza granaria. Gli scavi degli ultimi tredici anni, condotti a Efestia dall’attuale direttore della Saia, Emanuele Greco, hanno permesso d’individuare un villaggio miceneo del 1300 a.C., al quale si sovrappongono le tracce di una civiltà che mostra fortissime somiglianze con Troia. Anche il dibattito sulla presenza degli Etruschi a Lemno è stato arricchito di un nuovo documento epigrafico, pubblicato da Carlo de Simone, l’unico studioso al mondo in grado di leggere quest’oscura lingua. Sfortunatamente, tale patrimonio di conoscenze e testimonianze materiali rischia di andare sepolto sotto altre macerie, tanto più gravi perché non derivate da catastrofi naturali ma da strategie politiche oltraggiose. Non solo i finanziamenti alla Scuola archeologica italiana di Atene subiscono ogni anno tagli sempre più pesanti, ma ora il governo greco – a causa del mancato rispetto degli accordi che prevedono il restauro dei monumenti scavati dalla missione italiana – nega le concessioni per nuove indagini archeologiche. Neanche l’accorato appello che Emanuele Greco ha lanciato un mese fa per salvare la Saia (www.scuoladiatene.it) ha portato nelle casse della Scuola il denaro necessario per far fronte alle esigenze della ricerca. I circa sedicimilamila euro raccolti grazie alla generosità di un nutrito gruppo di mecenati fra cui spiccano gli stessi membri della Scuola, professori delle principali Università italiane e non da ultimo il Consigliere per la conservazione del patrimonio artistico del presidente della Repubblica Louis Godard, saranno destinati all’implementazione della biblioteca, che vanta già un fondo di cinquantatremila volumi. E mentre il governo italiano continua a tacere, costringendo il prestigioso Istituto a uno stillicidio quotidiano, cresce la pena per non poter mostrare alle autorità greche un senso di responsabilità per i restauri del post-terremoto che, oltre la storia della Grecia, riguardano anche la memoria dell’Italia.

Fra gli oggetti che necessitano una «cura» immediata vi sono le raffinate sirene alate in terracotta, rinvenute negli anni ’30 dagli archeologi nostrani in una stipe votiva di età arcaica a Efestia. Il 4 giugno, intanto, sono stati presentati ad Atene i risultati di un biennio di attività «sul campo» della Saia. Sarà forse perché siamo in terra ellenica e qui Platone svelò ai «prigionieri delle caverne» come sognare l’utopia, che – malgrado la durezza della crisi – i progetti proseguono con successo e vivacità intellettuale.