La Bce ieri ha di nuovo alzato l’Ela, la liquidità di emergenza, per la Grecia, la quarta volta da mercoledi’ scorso (dopo interventi anche venerdi’ e lunedi’), che ormai sfiora gli 89 miliardi. Ma Francoforte usa il contagocce nel funzionamento dell’ultimo rubinetto di liquidità che ha lasciato aperto per Atene, dopo aver chiuso tutti gli altri. La Bce, sola al comando in questo periodo di negoziati, tiene le redini molto corte sul collo della Grecia, rischiando, come sanno i cavalieri, di suscitare la ribellione del cavallo. La Bce, cioè, finanzia le banche greche al di sotto delle richieste. Il sistema bancario deve far fronte alla fuga dei capitali, circa 5 miliardi nell’ultima settimana, 30 miliardi in sei mesi, pari più o meno al 20% del risparmio del paese. La Bce con gli altri creditori fomenta la fuga di capitali e utilizza la paura del Grexit per tenere sotto controllo il paese con lo spettro di un “corralito” (controllo dei movimenti di capitali), chiesto chiaramente da Wolfgang Schäuble all’Eurogruppo di lunedi’.

Oggi, c’è un nuovo appuntamento dell’ “ultima speranza” per Atene, il nono Eurogruppo straordinario. Il tempo stringe sempre di più. Martedi’ 30 giugno ci sono due scadenze capitali: il rimborso di 1,6 miliardi all’Fmi e la fine del secondo piano di aiuti. La presidente dell’Fmi, Christine Lagarde, ha già fatto sapere che “non ci sarà periodo di grazia” se Atene non paga. Se non c’è accordo oggi, che dovrà poi ancora essere approvato al Consiglio europeo del 25-26 giugno e che deve passare – cosa non facile – anche al parlamento greco, andranno in fumo i 7,2 miliardi che restano da versare nell’ambito del secondo piano di aiuti. Senza questi soldi, la Grecia non potrà far fronte ai rimborsi (Fmi, ma anche Bce a luglio-agosto) e andrà in default.

I “tecnici” di Bruxelles e di Washington, detestati da Atene, lavorano al testo dell’accordo, sulla base delle ultime proposte della Grecia. I creditori hanno imposto un’ultima condizione, difficilmente digeribile dalla parte greca: è stata esclusa la questione della rinegoziazione del debito. Pierre Moscovici, commissario agli Affari economici e monetari, ha detto chiaramente: “abbiamo deciso di non parlare della rinegoziazione del debito”, che era pero’ la contropartita chiesta da Tsipras per poter far passare ad Atene la pillola delle nuove concessioni ai creditori. Senza rinegoziato, la Grecia rischia di cadere in un circolo vizioso (tipo Italia anni ’90), cioè di dover destinare tutti i risparmi sul budget e l’avanzo primario al pagamento degli interessi, impedendo cosi’ il rilancio economico. Sulla ristrutturazione dell’imponente debito di 322 miliardi (177% del pil) non c’è accordo tra europei: la Germania con il Nord, ma anche la Spagna e il Portogallo (che hanno subito piani di austerità), sono decisamente ostili. Per rendere meno amara la pillola, la Commissione ricorda che nel “pacchetto crescita” del piano Juncker ci sono 35 miliardi per la Grecia (anche se nessuno sa se si tratta di denaro fresco o di soldi già stanziati e riciclati sotto la nuova etichetta).

Se Atene conferma gli impegni delle “riforme” (tasse, pensioni, tagli), la discussione all’Eurogruppo di oggi dovrebbe quindi concentrarsi su quattro punti. Si riparla di una nuova estensione del secondo piano di aiuti, già rimandato due volte. Potrebbe essere di 4, 6 mesi, o addirittura fino alla primavera del 2016, quando scade il programma dell’Fmi per la Grecia. Dovrà venire stanziato un finanziamento di emergenza, per far fronte al rimborso dell’Fmi il 30 giugno. Dovrà poi essere deciso un programma di medio periodo di versamenti dei 7,2 miliardi restanti del piano di aiuti, per permettere ad Atene di rimborsare la Bce quest’estate. C’è poi da stabilire quando e come Atene potrà avere accesso ai 10,5 miliardi circa che la Bce conserva per ricapitalizzare le banche greche, per evitare un sempre possibile Grexident.

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