Lunedì si sono incontrate a Istanbul le delegazioni di Grecia e Turchia. La riunione si è svolta in un clima cordiale, recitano i comunicati ufficiali, ma le posizioni delle parti sono rimaste distanti.

Nonostante il ritorno al tavolo negoziale sulla delimitazione delle zone marittime di competenza (che si trascina dal 1973), Atene ha fatto sapere che qualsiasi soluzione dovrà rispettare il diritto internazionale, mentre il presidente turco ha ribadito di non accettare una suddivisione delle acquee territoriali che gli impedisca di sfruttare i giacimenti di gas del Mediterraneo orientale.

Del resto, era dal marzo del 2016 che Grecia e Turchia non si parlavano e la disputa ha originato un’escalation militare che ha sfiorato lo scontro diretto.

Al largo di Rodi, della piccola Kastellorizo e di Cipro, le navi da ricognizione turche, scortate dai vascelli militari di Ankara, si sono più volte fronteggiate con la marina militare ellenica.

L’attivismo turco ha suscitato la mobilitazione di un composito fronte a difesa della Grecia (e dei propri interessi), formato da Francia, Cipro, Egitto ed Emirati. Parigi – sponsor del generale Haftar in Cirenaica, mentre Ankara arma il Governo di accordo nazionale di Tripoli – ha spedito navi e aerei nell’Egeo e i toni tra Francia e Turchia si sono alzati.

Ma in poche settimane lo scenario è mutato. A dicembre, dopo anni di minacce, il Congresso di Washington ha varato sanzioni contro l’ente turco che gestisce l’import/export di armi. L’acquisto da parte di Ankara del sistema missilistico russo S-400 aveva già spinto gli Usa a bloccare la consegna alla Turchia di alcuni caccia F35.

Come se non bastasse, anche Bruxelles ha sottoposto a sanzioni due manager della Turkish Petroleum Corporation. Dopo l’avvento alla Casa bianca di Biden, ancora più ostile ad Ankara di Trump, Erdogan ha voluto evitare di rimanere schiacciato dalla tenaglia Usa-Ue e ha abbassato i toni nei confronti della Francia e dei 27, spedendo il suo ministro degli Esteri Çavusoglu in giro in Europa. A quel punto il premier greco Mitsotakis ha dato l’ok, su invito di Berlino, alla ripresa delle trattative.

Ma il fuoco continua a covare sotto la cenere. Atene ha appena siglato l’acquisto dalla Francia di ben 18 caccia Dassault Rafale (12 usati e 6 nuovi) dopo una trattativa durata appena quattro mesi; inoltre, il governo Mitsotakis, dopo aver ottenuto dal parlamento l’assenso all’aumento delle spese militari del 57% rispetto al 2020, ha varato piani d’acquisto di elicotteri, siluri e carri armati.

Atene caldeggia un accordo con la statunitense Lockheed per un potenziamento dei suoi F16 e prevede l’estensione del servizio militare obbligatorio da 9 a 12 mesi.

L’impegno finanziario complessivo per la Grecia potrebbe arrivare, nei prossimi anni, a 12 miliardi di euro, includendo la trattativa per l’acquisto (da Washington o da Parigi) di alcune fregate. Intanto Washington, in cerca di un’alternativa alla base di Incirlik – che Erdogan minaccia di chiudere – ha deciso di investire nell’allargamento di quelle di Souda e Larissa, proprio in Grecia. Se Francia e Stati uniti si contendono il riarmo di Atene, anche Israele ed Emirati hanno siglato con Atene un accordo di cooperazione militare.

Ovviamente, la Turchia non sta a guardare: proprio domenica ha inaugurato una nuova fregata di produzione nazionale e punta ora alla realizzazione di una portaerei. Erdogan vuole ottenere quanto prima sia l’autosufficienza energetica sia quella militare, due obiettivi che appaiono, nella strategia turca, indissolubilmente legati.