A scoperchiare il vaso di Pandora è stata Sofia Bekatorou, velista greca medaglia d’oro ai giochi olimpici di Atene del 2004. La settimana scorsa ha denunciato che nel 1998, quando aveva 21 anni, subì una violenza sessuale durante la preparazione delle olimpiadi di Sidney. La donna, che ieri ha deposto in procura, non ha fatto il nome del dirigente della Federazione della vela greca (Eio) accusato dello stupro, ma tutti gli occhi si sono rivolti verso Aristeidis Adamopoulos. Membro del partito conservatore Nea Dimokratia (Nd) e vice presidente dell’Eio, l’uomo si è dimesso in attesa che si faccia chiarezza. La stessa federazione è finita nell’occhio del ciclone perché inizialmente ha fatto riferimento agli anni trascorsi senza ricevere alcuna denuncia e ha addirittura chiesto maggiori dettagli alla vittima. Quando il caso è montato pubblicamente anche l’organizzazione è stata costretta a virare.

Dichiarazioni di sostegno, infatti, sono arrivate da tutto lo spettro politico: dal premier Kyriakos Mitsotakis (Nd) al leader dell’opposizione Alexis Tsipras (Syriza). Un significativo gesto di solidarietà è stato compiuto da Aikaterini Sakellaropoulou, la presidente della repubblica greca. Prima donna a rivestire questa carica, Sakellaropoulou ha ricevuto lunedì scorso Bekatorou, ringraziandola per aver rotto «la congiura del silenzio» e «rivelato i vergognosi segreti degli uomini che sfruttano il proprio prestigio e abusano del proprio potere contro le donne».

«Voglio ribadire che la mia vicenda non è una questione individuale che riguarda solo me. Fa parte di un problema generale e cronico relativo all’abuso di potere», ha scritto su Facebook la campionessa olimpica. E infatti, dopo la sua presa di parola, su giornali e social si sono moltiplicate le testimonianze. La velista Marina Psychogyiou, la nuotatrice Rabea Iatridou, la campionessa di salto in alto Niki Bakogianni, la giornalista Ioanna Iliadi hanno raccontato le violenze subite anni prima.  Insieme ai volti noti anche decine di altre donne, ragazze, studentesse hanno deciso di rompere il silenzio. «È la prima volta che in Grecia le persone sembrano pronte ad ascoltare queste voci che sono rimaste nascoste per molti anni. Certo, ci sono ancora uomini che mettono in dubbio ciò che accade, ma sembra stia cambiando qualcosa», dice Maria Apostolaki, coordinatrice legale di Diotima, Ong attiva sulle questioni di genere.

Nel primo rapporto sulla violenza contro le donne, pubblicato solo a novembre scorso, le autorità greche danno conto di 4.872 chiamate al telefono d’emergenza tra novembre 2019 e ottobre 2020. Nell’84% dei casi per episodi di violenza domestica e solo nel 4% per stupri o abusi sessuali (rispettivamente 71 e 64 casi). Numeri contenuti che lasciano intuire come le statistiche ufficiali disegnino soltanto la punta dell’iceberg. Lo studio è stato realizzato da quello che una volta si chiamava Segretariato generale per l’uguaglianza di genere, ma con l’avvento al governo di Nea Dimokratia ha visto aggiungere nel 2019 la dicitura «per le politiche della famiglia» e due settimane fa «per le politiche demografiche e della famiglia». Con i nomi cambiano anche priorità e strategie, con effetti ben più concreti delle parole spese in questi giorni da Mitsotakis.

Situazione a parte è quella delle migliaia di rifugiate che vivono nei campi sparsi tra le isole e la terraferma. «I numeri della violenza di genere nei campi profughi sono terrificanti – afferma Apostolaki – I problemi dipendono dalle condizioni di vita, dalle difficoltà a denunciare, dalla mancanza di documenti, dalla paura delle autorità. È una situazione terribile».