Ieri, restavano ancora 5 giorni al baratro del «Grexit», quando si è aperto il Consiglio europeo trasformato in un concentrato di tensioni. Oltre alla crisi greca, lo scontro sulle «quote» di migranti (ormai abbandonate), le tensioni con la Russia e, soprattutto, la minaccia prossima ventura, del «Brexit», il referendum britannico promosso da David Cameron, discusso ieri sera a cena dai capi di stato e di governo dopo i bilaterali dei giorni scorsi.

L’ennesimo Eurogruppo dell’«ultima speranza» – il decimo su Atene – ieri nel primo pomeriggio a Bruxelles, prima del Consiglio europeo, si è di nuovo concluso con un nulla di fatto.

Il prossimo appuntamento dei ministri delle finanze della zona euro, alla presenza delle «istituzioni» (Ue, Bce e Fmi), è adesso per sabato mattina: stavolta sarà davvero l’ultimo appuntamento utile, il 30 giugno a mezzanotte (ora di Washington) scadono infatti i termini per il rimborso di 1,6 miliardi all’Fmi da parte della Grecia e prende fine anche il secondo piano di «aiuti», cioè evaporano i 7,2 miliardi residui da versare ad Atene, indispensabili per mettere una toppa e pagare l’istituzione di Washington. Lunedì, difatti, il nuovo «accordo», se sarà raggiunto, deve essere votato al Parlamento di Atene e al Bundestag, e forse anche dai deputati di Finlandia e Olanda.

La strategia di rimandare all’ultimo secondo non piace a tutti. François Hollande è preoccupato: ha evocato la famosa frase di Maurice Thorez (il faut savoir terminer un grève) applicata alla Grecia, «bisogna saper mettere fine a un negoziato». Per il presidente francese «non c’è niente da guadagnare a lasciare ancora più tempo, la Grecia non ne ha più». Juncker (Commissione) assicura: «Lavorerò fino all’ultimo» per trovare una «soluzione compatibile con l’euro e buona per la Grecia».

Alexis Tsipras è «fiducioso», per il primo ministro greco «la storia della Ue è piena di disaccordi, di negoziati e poi di compromessi». I creditori hanno fatto alcune concessioni: nel loro «promemoria» (l’ultima versione del contro contro-piano offerto ai greci) accetterebbero tempi più lunghi per la soppressione dell’Ekas, l’assegno di solidarietà sociale, che potrà rimanere in vigore fino al 2019, due anni di più di quello che era stato chiesto in un primo tempo. Inoltre, ci sarà un primo bilancio degli effetti della riforma dell’Iva nel 2016 e a quel punto potranno forse essere prese in considerazioni le «compensazioni» proposte da Tsipras. Per il commissario agli Affari economici e monetari, Pierre Moscovici, ormai «i punti di vista sono più vicini».

Ma il fronte dei falchi non molla l’osso. Per Jeroen Dijsselbloem, presidente dell’Eurogruppo, «non ci sono ancora abbastanza progressi». Wolfang Schäuble, ministro delle finanze tedesco, ha affermato che le posizioni greche e quelle dei creditori «sono più lontane di prima». Jens Weidmann (Bundesbank) ha espresso «preoccupazione» per i continui rialzi dell’Ela (liquidità di emergenza) da parte della Bce, l’ultimo tubo di ossigeno alle banche greche. Weidmann sarebbe favorevole a un controllo di capitali immediato in Grecia. Anche Angela Merkel ha escluso il caso greco dal summit dei leader europei: «Da quello che ho sentito, non abbiamo ancora fatto i progressi necessari, su certi punti ho persino l’impressione di passi indietro».

L’Fmi resta intransigente: Christine Lagarde pensa alla sua rielezione, continua ad insistere sui tagli al welfare e a rifiutare aumenti delle tasse (dall’esito incerto), per avere la certezza di essere rimborsata. I creditori europei non vogliono mettere sul tavolo la cruciale questione della ristrutturazione del debito: «Per alcuni paesi equivale a un terzo programma di aiuti mascherato», ha spiegato il ministro delle finanze austriaco Schelling. L’Fmi invece è favorevole alla ristrutturazione (non per la sua parte, ma per quella degli europei), così potrebbe tirarsi fuori e restare solo come «osservatore».

Sospesa fino a oggi la grana greca, i 28 hanno fronteggiato a cena quella britannica, su espressa richiesta di David Cameron. Il premier britannico pone condizioni precise per fare campagna per la permanenza di Londra nella Ue in occasione del referendum, che si terrà tra il maggio 2016 e la fine del 2017. Per «recuperare la fiducia dell’opinione pubblica nell’Ue» ed evitare un «Brexit», Cameron chiede: azioni per la competitività con l’intensificazione del mercato interno (ci sono passi avanti per Londra con le proposte dei 5 presidenti), la creazione di un grande mercato dell’energia, la firma del Ttip con gli Usa prima della fine della presidenza Obama (la Germania è reticente) e anche «fairness», maggiore giustizia contro «la banda dei 19» dell’euro che mettono in minoranza la Gran Bretagna (ma nell’Unione bancaria c’è una correzione con il doppio voto). Londra chiude all’immigrazione, non solo quella extra-comunitaria, ma anche quella dell’est Europa e vuole ostacoli alla libera circolazione (ma su questo punto c’è un «no» deciso della Ue). Infine, Cameron vuole mettere un chiaro freno al processo di approfondimento nella Ue, per evitare un’Europa a due velocità (e trovarsi nella corsia più lenta).