Una vita che si conclude lascia, accesa e sensibile, la consegna di una scia. Non è solo quello che è stato detto e realizzato. Più peso hanno nel momento dell’abbandono tutti i frammenti delle parole non pronunciate e tutta la vita non realizzata. Giuseppina, che mi ostino a pensare sempre viva e vicina, consegna questo lascito. Inesprimibile.

Ho conosciuto Giuseppina Ciuffreda da una vita, fin dalla Federazione romana del Pci negli anni Sessanta, prima della radiazione del gruppo del Manifesto, e poi da subito fin nei primi giorni della storia del gruppo, della rivista e del giornale. Non portava nel confronto, nei dialoghi e perfino negli scontri la distanza della politica ma la passione della vita, la difficoltà dell’esistenza.

Noi tiravamo tardi nelle sedi del manifesto, lei alle riunioni portava il figlio piccolo, Marco, testimone di diatribe lunghissime sui destini della nuova sinistra rivoluzionaria. Il bambino infastidiva – così pensavamo – col suo pianto noi leader e convenuti in assemblea. Quel pianto invece ci riconsegnava alla realtà, come il tentativo di Giuseppina di giustificarlo, reprimerlo, coccolarlo.

Scoprivamo che stavamo nel vero grazie a lei che aveva il coraggio della donna, sola e madre. Non era facile, anche a sinistra, essere ascoltati. Se chi prendeva la parola lo faceva testimoniando la consapevolezza del vissuto.

Il personale era politico ma era una vergogna riconoscerlo. Più tardi avremmo dovuto fare i conti con il conflitto di genere e con il protagonismo delle donne.

Da Giuseppina ho imparato questo: usare un sorriso deciso, mai ambiguo. Un sorriso umano, alla conquista degli altri. Perché lei pretendeva, con rabbia, il positivo.

Fu lei nella redazione esteri ad aprire il dibattito «contro le notizie cattive» per «rivelare quelle buone». Che rincorreva nel mondo, inviata a seguire le svolte dell’89, in Ungheria, in Bulgaria e in Polonia. Nella sconfitta del socialismo reale, insisteva, c’era il limite dell’dea di progresso, inteso ancora dalla sinistra come allargamento del produttivismo. Proprio quando lo sviluppo produttivo cominciava a mostrarsi come distruzione dell’ambiente. Giuseppina affrontò quasi per prima il discorso sull’ecologia, riconvertendolo in un’arma di riscatto dei Paesi poveri della terra. In un lavoro che è durato decenni.

Sconfitta dalla morte troppo crudele del figlio, ma indomita nel tessere rapporti sul nuovo. Sul presente possibile del mondo, piuttosto che sul passato o sul futuro promesso. Sconfitta da un male inesorabile ma convinta – aveva per questo ripreso due anni fa la sua rubrica – che questo questo strumento della politica che ci ostiniamo a chiamare ancora il manifesto quotidiano comunista dovesse vivere oltre ogni conflitto intestino.
Grazie Giuseppina che hai lo stesso nome che era di mia madre.