Celebrare i centenari della nascita di grandi artisti non è mai cosa semplice, soprattutto se dietro al nome in sé si celava anche una grande umanità. Alida Valli (31 maggio 1921 – 22 aprile 2006) oltre che un’interprete di talento, era soprattutto una donna ricca di umiltà: ironica e autoironica, allergica alle etichette («non sono una diva!»), riservatissima per quanto riguardava il privato («un attore lo si giudica da quello che fa e, nella vita, meno lo si vede e meglio è»), sfuggì repentinamente a un sistema che nel tempo aveva cominciato sempre più a metterla da parte come corpo attoriale.

Maurizio Ponzi, che la diresse in Il caso Raoul, la ricorda così: «Una donna molto buona e gentile, ma che dà l’impressione di soffrire enormemente. Ha un odio verso la propria vita, giudicandola tutta sbagliata. L’hanno forse fatta invecchiare precocemente, le hanno dato questo suo continuo malumore. Credo che molto sia dipeso anche dal modo di come il cinema italiano l’ha trattata, dalla trascuratezza in cui l’hanno lasciata».
Alida era diversa. Era la classe dei telefoni bianchi. Era l’eleganza del mélo. Era la modernità della fotogenia, nella descrizione di Elsa De’ Giorgi: «Con questi tratti brevi, molto essenziali, e anche una certa dignità che c’era nel suo personaggio».

Abbiamo voluto renderle omaggio attraverso otto titoli della sua filmografia: da Soldati a Visconti, ma anche Mattoli, Franju, Chabrol, Argento e i fratelli Bertolucci. Immaginari – tutti – ai quali rimarrà legata in eterno.

Piccolo mondo antico
(Mario Soldati, 1941). Dopo una serie considerevole di commedie leggere, tra cui Mille lire al mese, con Piccolo mondo antico arriva la svolta drammatica, che conferma e sancisce la sua grandezza interpretativa. Fresca e disperata, dalla bellezza aggraziata, con gote turgide e collo affusolato: una signora «ammirabile e perfetta». Di soli 20 anni. Affiancato da Bonfantini Cecchi e Lattuada alla sceneggiatura, Mario Soldati – che con questo lavoro s’impegna a far rivivere la penna ottocentesca di Fogazzaro – è stato il primo regista a farle capire «la gioia di recitare».

Ore 9: lezione di chimica
(Mario Mattoli, 1941) Titolo bistrattato dalla critica dell’epoca, premiato dagli incassi, amato da Jean Cocteau, in cui Alida si trasforma in ricca studentessa tessitrice di intrighi, svogliata e capricciosa, peperina e perfidella. Adorabile nella sua imbronciata superiorità: quando si convince di avere avuto la meglio sulla direttrice del collegio (Giuditta Rissone) e invece, a pranzo, finisce in punizione poco prima di gustarsi l’amato timballo con fegatini di pollo, fulminando con lo sguardo il sorriso candido della «rivale» Irasema Dilian.

Senso
(Luchino Visconti, 1954) Accantonata la parentesi hollywoodiana – tra il piacere di aver lavorato con Hitchcock e Carol Reed, e la delusione provocata dalla crudeltà di Selznick -, per Alida s’impone la consacrazione definitiva grazie a uno dei massimi capolavori del cinema italiano. Un ritratto straziante, quello della protagonista, la contessa Livia Serpieri (nata dallo «scapigliato» Camillo Boito): tradito dagli sbagli della passione violenta e accorpato al crollo di un mondo. Senso sarà la sua croce e delizia: «Ce la misi tutta, ma non tornai alla vecchia popolarità e nonostante il successo del film continuò la mia «quarantena». Così, di nuovo, mi ritrovai a ricominciare tutto daccapo». La critica, però, la portò in trionfo.

Occhi senza volto
(Georges Franju, 1960) Louise è la devota assistente del professor Génessier (Pierre Brasseur), mad doctor che cerca di ricostruire a tutti i costi il viso sfigurato della figlia Christiane (Edith Scob). Su Alida aleggia l’inquietudine del mistero. Algida e micidiale (fotografata da Eugen Schüfftan, già collaboratore di Lang e Siodmak) epigona di Caronte che, a bordo di una sgangherata Citroën 2CV, traghetta piacenti ragazze dai volti luminosi verso la macellazione. Restando a sua volta vittima di questo eterno incubo di follia.

Ophélia
(Claude Chabrol, 1963)Chabrol rimodella liberamente l’Amleto di Shakespeare, inserendo la tragedia nella contemporaneità della borghesia industriale. Un inno allo squilibrio umano, un gioco al massacro tinto di giallo, sospeso tra farsa e profondità. Il personaggio di Alida rimane ai margini dell’azione, trovando però riscatto con uno degli incisi più dolorosi e poetici dell’intero copione: «Siamo solo animali e il nostro cuore marcisce prima del nostro corpo».

Novecento
(Bernardo Bertolucci, 1976) «Mi piacciono le parti in cui mi ammazzano, spiritualmente o fisicamente. In Novecento mi hanno uccisa in entrambi i modi». I fratelli Bertolucci donarono ad Alida una seconda rinascita di carriera. Dopo Strategia del ragno, in cui l’attrice dipinge il personaggio di Draifa con matura maternità mista ad attrazione, arriva il piccolo ma indimenticabile ruolo di Ida Pioppi di Novecento. Una parte, a detta dello stesso Bernardo, contrassegnata dal vento melodrammatico che non l’ha mai abbandonata; capace di spaziare dal comico-patetico (quando allieta col canto lirico gli invitati al matrimonio di Alfredo e Ada, talmente concentrata nella performance da non accorgersi che gli applausi non sono per lei bensì per Cocaina, purosangue fatto in dono alla sposa) all’orrore gridato (è lei a scoprire il corpo martoriato del piccolo Patrizio). E poi, naturalmente, c’è l’inquietante sequenza in cui è convinta di tenere in pugno Attila e Regina (più terrificanti di qualsiasi mostro di fantasia) per evitare l’esproprio: «Assassini! Assassini! Assassini!», grida compulsivamente a pochi passi da una fine feroce e umiliante.

Inferno
(Dario Argento, 1980) Il tailleur con cravatta, le francesine a tacco largo (con le quali calpesta le larve) e il ghigno diabolico della tremenda Miss Tanner di Suspiria lasciano posto a un’altra figura mefistofelica, quella di Carol (nome mai esplicitato nel film), usciera della dimora di Mater Tenebrarum, la più crudele delle tre «signore degli orrori della nostra umanità». Custode-gregaria di atroci segreti, dall’animo avido, Alida/Carol vomita tutto il livore covato per anni verso la nobiltà di palazzo: «Tra un po’ toccherà a noi goderci la vita, né più né meno di quanto se la godeva la contessa e tutti quanti quei ricchi bastardi!», dice a John (Leopoldo Mastelloni) mentre sono intenti a rubare i tesori della contessa Elise (la compianta Daria Nicolodi). E, proprio mentre il piano di furto sta per concludersi, la Morte piomba su di lei: avvolta dalle fiamme, cade nel vuoto andandosi a schiantare contro un lucernario. L’inevitabile ingresso al supplizio degli inferi.

L’amore probabilmente
(Giuseppe Bertolucci, 2001) L’iter attoriale di Sofia (Sonia Bergamasco) si compie attraverso tre fasi: «la menzogna» con Mariangela Melato, «la verità» con Stefania Sandrelli e, infine, «l’illusione» con Alida Valli. «Alida, la grande Alida», sospira Giuseppe, «non sono riuscito a convincerla, non sta bene, non se la sente di venire a girare. La rubiamo da un altro film». Così, nell’intreccio metacinematografico tra miraggio e certezza, rivivono sullo schermo le immagini di Eugenia Grandet e in sottofondo cogliamo, dalle voci tiepide degli stessi Bertolucci e Bergamasco, la condizione ideale per un attore secondo le battute che avrebbe dovuto pronunciare Alida: «L’arte non è né verità né menzogna. L’arte è illusione. Devi riuscire a illudere, ma per illudere gli altri devi prima illudere te stessa. Insomma, una brava attrice è soprattutto una povera illusa». L’ultimo, sincero regalo alla sua anima.