Joe Arpaio, conosciuto come lo «sceriffo dell’Arizona anti immigrati», condannato per aver violato i diritti civili e costituzionali dei migranti caduti nelle sue mani, ha avuto la grazia da parte di Trump.

Durante una notte segnata dall’uragano che si è abbattuto sul Texas (e liquidato dal presidente Usa con un «buona fortuna» indirizzato ai texani) e dal nuovo lancio di missili da parte della Corea del nord, un fuoco di fila di notizie sono partite dalla Casa bianca: la grazia ad Arpaio era nell’aria ma lè stata comunque sconcertante.

A ricordare i dettagli della figura di Arpaio è stato principalmente il Phoenix New Time, pubblicazione locale dell’Arizona che da 20 anni segue le nefandezze dello sceriffo conosciuto in tutta America come una forza dell’estrema destra.

Arpaio, dopo un processo, era stato condannato a sei mesi per aver ignorato l’ordine di un giudice federale che gli aveva imposto di smettere di arrestare le persone solo sulla base del sospetto di immigrazione clandestina (i suoi uomini avevano l’ordine di radunare le persone scure di pelle, arrestarle e solo in seguito controllarne la posizione) e per il trattamento inumano che riservava alle persone che arrestava. Come obbligarli a consumare cibo immangiabile, o costringere gli uomini a indossare vestiti rosa solo per umiliarli.

Non è stata solo la grazia a una figura pubblica indifendibile ad aver colpito gli osservatori americani, ma la dinamica: è consuetudine del Dipartimento alla Giustizia quella di prendere in considerazione richieste di grazia dopo cinque anni dalla sentenza se il condannato manifesta rimorso.

Arpaio non solo doveva ricevere la sentenza il prossimo 5 ottobre, ma ha anche sempre rivendicato le proprie azioni con orgoglio. È stata quindi una scelta personale di Trump di graziare quello che è uno dei suoi primi e più entusiasti sostenitori.

Arpaio ha sempre difeso the Donald, appoggiando l’idea del muro col Messico e l’insensata teoria secondo cui Barack Obama non sarebbe nato negli Stati Uniti.

Questo miscuglio di razzismo, sessismo e teorie complottiste si ritrova nell’altro grande annuncio arrivato poche ore prima, ovvero l’ordine esecutivo che impone al Pentagono di fermare il reclutamento di persone transgender nell’esercito americano, anche se lascia al Dipartimento della Difesa il compito di decidere su chi è già in servizio.

Nel testo dell’ordine esecutivo indirizzato al ministro della Difesa Jim Mattis, si specifica anche che il Pentagono non pagherà più le spese mediche del personale transgender che già lavora nell’esercito.

Questo nonostante i capi stessi del Pentagono – da quando Trump ha iniziato a parlare del decreto su Twitter – si siano detti contrari al provvedimento, dando solidarietà ai loro militari transgender.

L’Associazione per i diritti civili, Aclu, ha già annunciato battaglia legale, ma questi due provvedimenti mostrano chiaramente la direzione opportunistica di Trump, che va sempre più a destra, concedendo l’inconcedibile pur di rafforzare la propria positivo.

«Questo è un grande dito medio verso l’America» ed uno sdoganamento istituzionale del razzismo, ha dichiarato il senatore democratico del Connecticut, Chris Murphy, a proposito di Arpaio. Ma entrambi i provvedimenti hanno generato reazioni forti anche tra i repubblicani, incluso il senatore dell’Arizona.

Nel frattempo l’amministrazione Trump, in contraddizione con ciò che sta avvenendo, ha perso un altro pezzo, con le dimissioni, non si sa quanto spontanee, di uno dei suoi elementi più estremisti e incontenibili, il consigliere per la sicurezza e l’anti terrorismo Sebastian Gorka, che era entrato alla Casa bianca dichiarando: «I maschi alfa sono tornati».

La motivazione ufficiale del suo abbandono, come per Bannon, è legata all’insoddisfazione per il nuovo corso troppo centrista dell’amministrazione Trump, dove forze contrarie alle sue promesse elettorali stanno prevalendo e legando le mani ai veri rivoluzionari, come dimostrerebbe la decisione di rafforzare la presenza in Afghanistan invece che concentrarsi a rifare grande l’America.

Questo licenziamento e i due provvedimenti mostrano che la lotta interna all’amministrazione continua, e che l’agognata normalizzazione non farà parte di questa Casa bianca